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R Recensione

6/10

La Dionea

La Sindrome Di Cassandra

Un trio classico, basso batteria chitarra, tanta voglia di suonare, comunicare, stupire e, perché no, avere successo, La Dionea vengono da Salerno e non nascondono le proprie ambizioni, con un ep d’esordio dal suono magniloquente e liberatorio, ma crepuscolare e delicatamente ermetico nelle liriche.

Riascoltando per l’ennesima volta La Sindrome di Cassandra non posso certo sostenere che sia un lavoro dozzinale: ottimamente prodotto, giusto una punta di autoreferenzialità, suonato anche meglio, con una padronanza tecnica che si evidenzia prepotentemente nelle piacevoli divagazioni strumentali, canto un po’ stucchevole di tanto in tanto sopra le righe, buoni testi che palesano da una parte urla generazionali di rabbia e disinganno, altrove pensieri intimi sul tema della colpa e della solitudine.

Lo so che aspettate il ‘ma’, e il ‘ma’ inevitabilmente arriva a frenare i facili entusiasmi. Perché, oltre ad aver sentito quanto sopra riascoltando il disco per l’ennesima volta, ho sentito anche altri dischi, band, generi e sottogeneri. È tutto o quasi dannatamente derivativo e mi sono ritrovato a pensare, dopo ogni giro di chitarra, assolo di batteria, falsetto melodioso, a dove avessi ascoltato questo e quello, e il più delle volte ho trovato la risposta. Sia ben chiaro, suonare nuovi al giorno d’oggi è impresa titanica, ma valutare una band sulla base del talento tralasciando il coraggio non mi viene per nulla naturale.

Si comincia da Dare Tempo Al Tempo è Una Trattativa Senza Scambio, una ballata avvolgente che evidenzia però uno dei limiti (o pregi, a seconda dei punti di vista) del disco: la voce del cantante e chitarrista Alfonso Roscigno, pericolosamente zuccherosa, una via di mezzo tra il falsetto di Matthew Bellamy e le dilatazioni timbriche di Alberto Ferrari. Proprio i Verdena sono tra i riferimenti principali dei tre salernitani, parlo anche di scrittura dei testi oltre che di attitudine musicale, evidente in questo brano iniziale (una canzone a caso, Il Gulliver…) e nel successivo Farsene Una Colpa, che senza quell’album di nome Requiem concepito diversi anni orsono meriterebbe certamente dignità e importanza di altro livello. Dopo le sfuriate di batteria del bravo Riccardo Alfano, un vero talento, e il finale in crescendo coi chitarroni gravidi, il disco torna rassicurante nei cambi di ritmo della title-track, con un’altalena di silenzi pause e aperture strumentali che è marchio di fabbrica della band.

Il pezzo forte dell’ep è la più orecchiabile In Vortice, svagatamente pop, molto Muse degli esordi per gli acuti esplosivi nel ritornello e per il finale monumentale in pompa magna, che riafferma la buona sapienza tecnica dei tre (citiamo anche Giovanni Botta al basso). Dopo che i soliti Verdena, stavolta quelli dell’omonimo esordio, si materializzano nella punkeggiante Anna è Infelice, il disco si chiude con la sentita ballad (molto) autobiografica Alfonso Non Ha Colpe.

Una discreta mezzora di buon rock italico, che ha il suo limite principale nell’irritante cozzare diseguale di musica e voce, e nel volere a tutti i costi inseguire una dimensione alternativa che proprio non gli appartiene.

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