Massimo Volume
Lungo i Bordi
“Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano, ecco l’unico fatto che possa compensare di non essere l’uragano.”
Al Pretello sono state scritte storie importanti di libertà, tutte italiane e incredibilmente dense. Da Radio Alice a Prate TV non sono pochi i sintomi di un clima tutto particolare che circondò quel di Bologna per molti anni (niente a che vedere con quotidiani sceriffi appassionati di presunti P. Dick).
Formarsi durante le occupazioni del ’92 è di certo un buon punto di partenza per esplicitare la peculiarità della proposta musicale portata avanti dai Massimo Volume. Con suoni ripetitivi, a metà tra l’angosciante e l’epico, si apre un universo in cui si perde il senso del limite e c’è il rischio di finire “come il soffitto di una chiesa bombardata”.
Più che di musica ci sarebbe da parlare di poesia, perché grande rilievo e spessore lo hanno i testi e le parole, incorniciati da una musica che non ha altre pretese se non creare il giusto ambiente e cornice in cui lasciare i proprio messaggi.
Avere molti sogni e nessun soldo, grandi speranze nel cuore e pochi segni positivi intorno. Una sorta di Cappuccetto Rosso che si muove in una metropoli distrutta di un fantomatico futuro (di quelli che affollano i videogiochi tanto di moda e i manga di bassa categoria).
Arido, denso e nudo sono forse i tre aggettivi più giusti per provare a dare un’idea di quello che ci si può aspettare.
Non è un lavoro facile da digerire o apprezzare. Qualche commento parla di “litania mezzo urlata e monotona”. Di certo la recitazione e l’esecuzione strumentale cerca di conquistare una linearità, che riesce però a infilare un anello dopo l’altro di una gelida collana. È volutamente ostico, dedicato a tempi di crisi. “La sequenza di uomo che spezza le corna di un toro a mani nude … ma manca la foto del contatto. Leo è questo che siamo?”.
Se avete appena trovato l’amore della vostra vita, ricevuto una promozione, aumentato la produzione o portato a termine la rivoluzione passate ad altro, e riservatevi i Massimo Volume per un momento di pausa e riflessione.
Dalla opener (Il primo dio) dedicata al poeta bolognese Manuel Carnevali, passando per l’urtante Frammento 1 e arrivando in una caotica Ravenna si resta trattenuti in una fatale rete; o riuscite ad amarla o la disprezzerete, ma comunque una volta passati non c’è verso di liberarsene.
Lungo i bordi dimostra una grande maturità e senso del reale, nonostante sia solo il secondo lavoro del gruppo, che già si era fatto notare con il soprannominato Demo Nero del 1992, e il buon Stanze (1993).
A dimostrare la scarsa semplicità del gruppo stanno quei concerti d’inizio carriera in cui le stanze dove suonavano andavano a svuotarsi dopo qualche pezzo. Clementi stesso (voce, autore dei testi e bassista) ammette; “fino a che la gente non ha cominciato a venire ai concerti un po’ più predisposta rimaneva delusa dopo gli entusiasmi della critica”.
Vederli (dopo lo scioglimento del 2002) solcare il palco con Afterhours e Patti Smith (nel 2008) dimostra che il riconoscimento (nel mediato) non è mancato.
Meno conosciuti tra altri gruppi di rock alternativo, sono riusciti a restare lontani dai lidi commerciali o di facile approdo, immergendo Lungo i bordi in una teca da capolavoro.
Ora fate finta di non aver letto una parola di questa recensione.
Inserite il disco, date il via e spengete la luce.
Non è un viaggio facile. È una lenta e inesorabile marcia verso l’infinito.
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