V Video

R Recensione

8/10

Velvet

Confusion is Best

I Velvet e gli Anni Zero

 

Volevo una ragione per stare appeso ad una nazione

che non ti vuole che ti rende nervoso.

E non lo so se guarirò, ho preso un antibiotico.

E non lo so se morirò: lì fuori l’aria è lurida…

È tempo di miracoli.

 

Velvet, I nuovi emergenti

  

Dovreste sentire Confusion is best, l’ultimo pezzo dato in pasto alla rete dai Velvet feat. Beatrice Antolini e confezionato da Casasonica, una delle poche etichette indie italiane con le idee così chiare che sembrano quasi trasparenti. Non ditemi di sì per poi gettarvi a capofitto in un nostalgico Gaetano, o dichiarare che in Italia ci sono solo Dente e i Baustelle. I Velvet, già. Quelli italiani, senza l’Underground. Che poco più di una manciata di anni fa erano gli aedi delle «esplosioni addominali», unico e concretissimo «obbiettivo di una estate» degli esteti del pro forma. Che miagolavano una hit dopo l’altra sfornando anche qualche chicca, pur riconducibile ad un italianissimo sound del pezzo facile in Sol maggiore.

Io non sono uno per la musica intellettuale, non certo per quella intellettualoide. I Nirvana spaccarono il guscio del mondo girando sugli accordi maggiori e il Do stoppato di Polly, nessuno - dico nessuno - potrà più dimenticarlo. Ma credo che la nuova complessità creativa dei Velvet, in questo caso, abbia finito con l’aiutarli. E, cosa assai più importante, di stupirci all’ascolto di qualcuno di cui avremmo al massimo scaricato un pezzo per provarci con una tipa neppure troppo carina.

Se mettessimo in play e contemporaneamente ad esempio Tutto da rifare (singolo presentato a San Remo nel 2007) e Confusioni is best (che data 2009) stenteremmo a credere si tratti dello stesso gruppo. Non solo le due tracce si presenterebbero come inconciliabili, ma pure collidenti. L’ultima prova dei Velvet, addirittura, andrebbe nella direzione opposta, giungendo a fagocitare ed annientare la precedente. Là dove ascoltassimo il suono di voci levigate ed esposizione armonica piana, rotonda nel suo ritornare su se stessa, qui scopriremmo una polifonia dissonante e schizofrenica, spezzata e multifocale, schiettamente e sfrontatamente mixata perché scompaia ogni riferimento al melodramma peninsulare.

Chi ha sentito il pezzo dichiara, così come chi lo ha composto, che è il frutto di una maturazione e di un nuova progettualità compositiva. Io credo sia invece l’opposto: il risultato di una amputazione netta e di un rifiuto categorico del passato. Non so voi, ma io mi sento preso per il culo quando mi dicono che le esperienze adolescenziali sono la componente basamentale del mio essere adulto. Guardando all’ormonalità, la paranoia, l’impaccio, la sudorazione blasfema e l’imperdonabile ignoranza dei miei anni teen, sento che se c’è una strada da percorrere verso l’adulthood, questa dovrebbe essere di direzione «ostinata e contraria».

L’attuale panorama musicale è esattamente il dominio dell’adolescenza, il tripudio delle tracce da ipod rosa coi i cuoricini glitter. Chi domina le scene italiane scrive ed è chiamato ad orientarsi verso un pubblico minorenne - o minorato se cresce l’età – da cui ogni complessità è bandita in nome di una praticità spicciola e di un sicuro tornaconto monetario. Il talent show genera mostri di superficialità contenutistico-progettuale compensata forse, ed è l’unica cosa che a quanto pare conti e su cui spendere qualche degna parola, da una eccellente capacità espressiva. Belle voci prestate al nulla, al fast food delle emozioni.

La forma non è tutto. O meglio, la forma dovrebbe essere inscindibile da ciò che veicola. O ancora, ogni contenuto dovrebbe essere rivestito della miglior forma possibile. Se ora vorrete obiettare che la musica, checcazzo, è un semplice mezzo di evasione, allora smettete immediatamente di leggere. E non ascoltate più musica, per favore. Per evadere - e meglio - ci sono le droghe. Ma se invece credete ancora che il pubblico meriti di ascoltare buona musica e che la musica possa ancora essere uno dei veicoli attraverso cui rimettere insieme il puzzle del presente, allora converrete con me questa debba avere un messaggio, debba credersi pienamente un’arte, e, come tale, assumere le forme di una “sentenza” sul mondo.

Ecco che allora la forma diventa sostanza, e il modo in cui “narro” la mia idea di mondo, in cui “sistemo” la mia esperienza, deve essere tanto valida quanto la proposta “narrativa”, l’analisi “sistematica” appunto.

L’Italia è un paese finito, dicono in molti. Giuseppe Genna, in un libro che correrei a comprare se fossi in voi (Assalto ad un tempo devastato e vile, Minimum Fax, 2010) scrive che è semplicemente finito il tempo delle avventure, delle vite degne di assurgere alle pagine di un romanzo. Come non dargli torto: la pecca peggiore di questo paese è la mancanza di una seria educazione e, di conseguenza, l’impoverimento della fantasia. Non so se ve ne siete accorti, ma è da almeno un decennio che, come titola il giornalista Giuseppe Guin, "qui non succede niente".

I fatidici anni ormai denominati “zero” restituiranno alla memoria il loro significato matematico più che quello d’etichettazione: zero crescita, zero maturazione, zero produzione, zero politica, zero movimento, zero pensiero: zero di zero. In Generazione 1000 euro, film simpatico e niente di più, il protagonista asserisce più ironicamente che tragicamente: «Questa è l’unica epoca della storia in cui i figli stanno peggio dei padri e la nostra risposta qual è? Mangiare sushi?».

È per questo che i Velvet non devono, e non dovranno, giustificare la loro schisi con ciò che erano rispetto alla direzione che stanno prendendo. Se nessuno troverà in loro quello che sono stati, chissenefrega. Oggi più che mai c’è bisogno di ricostruire per intero le carreggiate di una strada nuova, rivangarne gli argini e piantare i monoliti segnachilometri senza più titubanza o pudore. Ma tutto ciò che ci propinano è, on the contrary, il tracciato di vie già solcate sulle quali fare i muli per scarrozzare gente che dovrebbe stare seduta in pantofole a guardarsi le partite.

Se non c’è futuro – e vi assicuro, non c’è futuro – allora il presente diventa un campo di lotta bestiale, in cui tutti, ma proprio tutti siamo chiamati a farci homini historici, a sobbarcarci il peso della lotta di essere politici, cioè, etimologicamente, cittadini. Non vedo alternativa. Anzi la vedo, la sento tutti i giorni perpetrare nell’indifferenza e nel conformismo, che è l’indifferenza sicura ed armata dalla sfiducia prima di tutto verso se stessi.

Così Confusion is best penso lanci una sfida e assieme a tutto il nuovo lavoro discografico del Velvet, Nella lista delle cattive abitudini, chieda di più ai propri fan o newbies: «anything faces what tomorrow is passed, you let me drive but confusion is best». Che vale a dire, secondo una provocatoria interpretazione astoricista e dannatamente americana di Henry Ford: ok, il passato è andato. Un mucchio di stronzate perché «we want to live in the present and the only history that is worth a tinker's damn is the history we make today». I Velvet riscrivono se stessi e lo fanno alzando il tiro. Le sonorità si complicano e, nonostante il piglio resti trascinante e popolare nella sua lettura più semplice, la volontà di “dire” e di creare, spinge il sound a stratificarsi e a porgere l’orecchio oltralpe. Compaiono synth e campionature aggressive, voci in delay e motivetti orecchiabili su strutture sincopate, sgrammaticaticate e di difficile orecchiabilità. Entrano I bassi trascinanti dei Justice e la complessità autoironica dei Battle, con un poco di pretese in meno ma tanta voglia di novità elettronica.

Fare storia oggi, farlo con la musica, con la letteratura, con la televisione, la pittura, il proprio schifoso lavoro, la lettura, andando al cinema o infilando i calzini sporchi e le mutande nell’atmosfera asettica di una lavatoria automatica. Certo noi non siamo americani, e non riusciremo mai ad eliminare dai nostri geni la salvifica confusion che ci blocca e ci spaventa, ma anche ci salva dal fanatismo.

Però non possiamo accontentarci neppure di stare a guardare il trionfo delle superfici patinate, che mentre ci raccontano che tutto va bene e il «governo del fare» lavora al posto nostro, rendono l’aria di questo posto «lurida» e irrespirabile.

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 3 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Cas alle 11:33 del 13 aprile 2010 ha scritto:

il singolo è troppo DFA.

interessante...

Graaanita (ha votato 8 questo disco) alle 11:27 del 16 marzo 2011 ha scritto:

Mi sono sempre piaciuti i Velvet.

Bellissima recensione. Ho apprezzato l'accenno a Polly dei Nirvana.

E mi ha fatto sorridere poi il ricordo del ritornello del 2001 ''Soffro lo stress (io) soffro lo stress faccio un passo ed ho il fiatone. Suono in una boy band, suono in una boy band: ci deve essere un errore!''

Voto 8, pieno.