Paul Weller
Saturns pattern
Il passato che ritorna, implacabile, nonostante i più accurati e convinti tentativi di rinnovamento. Viene da riassumerlo così Saturn patterns, il nuovo lavoro della terza carriera di Paul Weller, artista che vive una sorta di eterna giovinezza, nonostante i 38 anni che lo separano dagli esordi con il trio di Woking, conosciuto come The Jam, ed i 32 da Long hot summer esordio degli Style Council con Mick Talbot. Da lì in poi è stata, e continua ad essere, una lunghissima tirata solista, giunta qui al dodicesimo episodio fra molti alti e pochi passi falsi, allinsegna di un livello compositivo sempre elevato e di una identità artistica che, senza mai rinnegare i punti cardinali scolpiti nel soul e nel rock, ha condotto Weller allo status di star internazionale. Eppure, da un paio di album a questa parte, il Nostro pare essersi fissato con lidea di ammodernare il repertorio assicurando pennellate di elettronica, dosi di moderato kraut rock e qualche comparsata di vocoder ai suoi modern classics che pescano così lontano nella tradizione anglosassone. Accadeva un paio danni fa con Sonic Kicks, e sul recente Saturn Patterns la voglia non sembra svanita.
Nel primo brano White sky, nato da una collaborazione con gli elettro hippies Amorphous Androgynous gli intenti sono più che evidenti quando il classico riff hard rock anni 70 che introduce il pezzo viene, subito dopo, riproposto in versione filtrata elettronicamente e centrifugata in un vortice psichedelico. Ma non cè da temere, perché dal pezzo successivo è tutto un fluire di classico Weller style, con il passato che prende prepotentemente la scena e fornisce gli strumenti per forgiare una serie di canzoni a buon titolo collocabili fra il meglio della produzione recente. Daltra parte, se hai nel codice genetico Small Faces, Kinks e Who è difficile trasformarsi nei Future sound of London, ed in fondo nessuno lo chiede a Paul Weller. Allora, per evidenziare i vertici assoluti, bisogna citare Going my way, un numero che inizia come una ballad e acquista gradatamente ritmo e spazio fino a diventare irresistibile come A town called Malice, nel quale neanche cantando du-bi-doo il nostro riesce a sembrare banale. Quindi Phoenix, una sostenuta ballad soul in aroma Curtis Mayfield, con una coda strumentale ricca di effetti elettro vintage, ed infine la conclusiva, avvolgente, These city streets inno metropolitano servito da hammond e da una calda vocalità, i cui accordi di chitarra iniziali faranno sobbalzare che ha amato Cafe bleu. Ma anche il funky di Pick it up, la ritmata title track, il grintoso rock di In the car e, nelledizione speciale, il pub rock pianistico di Roadrunner e la folkeggiante Dusk tilldawn non sono momenti da trascurare. Il disco è anche occasione per una sorta di riepilogo delle vicende personali dellautore, uno di quei bilanci che, passati i cinquanta, si fanno sempre più frequenti, ed il blues di Long time unito al suggestivo folk di Im where i should be sono le testimonianze di una situazione di equilibrio finalmente raggiunta dopo anni turbolenti.
Ci ho messo cinquantanni a scrivere questo pezzo ha esordito Weller nel recente concerto romano, presentandolo come primo pezzo della scaletta. E la qualità di Saturns pattern, una volta tanto, smentisce il mito che al genio si debba necessariamente accompagnare il tormento.
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