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R Recensione

8/10

Richard Hawley

Standing at the Sky's Edge

Richard Hawley, cantante e chitarrista inglese già collaboratore dei Pulp e fondatore dei Longpigs, dal 2001 protagonista di una carriera in proprio, era fin qui famoso anche per dedicare album e copertine degli stessi a luoghi cari della città natale di Sheffield. Così, in Late night final il nostro appariva in un bar intento a fumare e leggere il giornale, in Cole’s corner, nell’omonimo quartiere della cittadina inglese, con un mazzo di fiori in mano aspettando chissà chi, mentre Lady’s bridge, dove si mostrava in poltrona in compagnia di una Gretsch, era un'altra dedica ad un luogo amato. Quando proprio voleva cambiare, appariva in sella ad una motocicletta naturalmente d’epoca (Lowedges) o, semplicemente, in primo piano, come nello splendido “Truelove’s gutter” del 2009. Nella cover del  nuovo “Standing at the sky’s edge” , appena uscito per la Parlophone, non c’è traccia del cantante e campeggia, al suo posto, un caleidoscopico cielo visto da terra. E il cambiamento prelude ad una novità anche sul piano musicale: la trasformazione delle suadenti melodie sixties condotte dal vocione baritonale di Hawley in un affresco rock psichedelico saturo di elettricità e scenari mind expanding.

Il cambiamento è evidente subito, a partire dal primo brano del cd “She brings the sunlight”, un raga rock a base di chitarre distorte e sitar che difficilmente ci si sarebbe aspettati da un erede di Roy Orbison. I primi quattro brani sono così: senza rinunciare al suo marchio di fabbrica che affonda le radici nella aurea tradizione del classico rock’n roll, Richard ha immerso le sue composizioni in un bagno acido, rafforzandone la componente rock e uscendone con un lavoro che per la quasi totalità si colloca in pieno territorio psichedelico, il “rocket sound” come lo chiama lui. Addirittura in “Down in the woods” , potente cavalcata rock, cita gli Stooges di “1969”, quasi un omaggio agli illustri predecessori dell’operazione. Solo alla quinta traccia, “Seek it”, si torna alla dimensione usuale, si stacca la spina e la voce torna in primo piano per una sorta di manuale della perfetta ballad romantica. A seguire “Don’t stare at the sun”, altro colpo basso alle coronarie, con una partenza che ricorda le pagine migliori di Echo and the Bunnymen ed uno sviluppo che regala una delle più suggestive melodie dell’intero lavoro. Ma è solo una breve pausa, a questo giro Richard è fissato con l’elettricità, e dopo i tremolii dark di “The wood collier’s grave”, negli ultimi due episodi “Leave your body behind” e “Before”,  le chitarre tornano a saturare il panorama. Senza sguaiatezze, con garbo e preservando l‘attenzione per la melodia, ma stavolta Richard Hawley aveva davvero voglia di pestare duro.

 

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C Commenti

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crisas (ha votato 5 questo disco) alle 2:28 del 18 giugno 2012 ha scritto:

Album di qualità ma il tutto sa di già sentito e 'vecchio', colpa anche delle scontate melodie vocali.