R Recensione

7/10

Bill Callahan

Woke On A Whaleheart

All’onorabile età di trentotto anni, il signor Bill Callahan, apparentemente archiviata l’ormai celeberrima ragione sociale che lo aveva fatto conoscere con la fortunata sigla Smog, nella prima parte della carriera, e come (Smog) negli ultimi tre album, trova ancora la voglia e il coraggio di rimettersi in gioco tipico di chi è veramente un gigante, esordendo col proprio nome in occasione del suo tredicesimo album,ribadendo così la volontà di sterzare rispetto alle pur vincenti coordinate espresse fino ad oggi, che lo hanno portato nell’olimpo dei migliori songwriters americani degli ultimi vent’anni.

Non che il nome stampato sopra la copertina di un disco voglia dire poi tanto, così come non si usa giudicare un fiore dal nome che porta nello stesso modo non ci si sognerebbe mai di farlo con un album, ma è pur vero che a volte (solo a volte) due più due fa quattro, e allora appena preso il disco tra le mani qualcosa di insolito dovrebbe saltare subito agli occhi: quella copertina quasi psichedelica e grondante di forme e colori, così piena di particolari che si potrebbero perdere ore e ore a guardarla, e quel nome scritto proprio li sotto contrastano, creano uno strappo netto con le precedenti grafiche del nostro, estremamente povere e spaziose, quasi spartane nella loro disarmante essenzialità.

Poi bastano i primi venti secondi di ‘ From The Rivers To The Oceans’ (ancora una volta i fiumi come metafora delle nostre vite, sempre presenti nella poetica callahaniana), la prima traccia di questo ‘Woke On A Whaleheart’ e il cuore riprende il battito dell’innamoramento: introduzione affidata ad un piano spezzacuore subito gonfiata da una batteria severa e solenne, e il vocione abissale di Bill che è ancora li, a dettare un romanticismo tipicamente alt-country ma quasi spogliato del folk alla carta vetrata di album come ‘Knock knock’ o ‘Rain on lens’.

Probabilmente una delle canzoni d’amore più limpide e felici che capiterà di ascoltare quest’anno.

Tutte le tracce sono arrangiate e in qualche caso anche suonate dall’ex Royal TruxNeil Hagerty, e in qualche modo i passaggi tossici e sudisti di ‘Diamond dancer’ e le allusioni soul che fanno capolino con la voce di Deani Pugh-Flemmings in ‘Footprints’ lo testimoniano.

Oggi, sembra che l’istinto country folklo-fi tipico di gente come Silver Jews e, in misura minore Bonnie Prince Billy, presentato in ‘Honeymoon child’, ‘Night’ e ‘The wheell’ vada a contaminarsi con il Lou Reed di ‘Sycamore’ e il Johnny Cash stravaccato su una sedia a dondolo sulla veranda di qualche casa isolata di ‘A Man Needs A Woman Or A Man To Be A Man’.

Menzione speciale merita poi ‘Day’, una marcetta irresistibile carica di elettricità statica come l’aria prima di un acquazzone, un pò ‘I feel like the mother of the world’ studiata per farci alzare al nostro prossimo capitombolo.

Perchè alla fine, la parte più importante di ogni nuovo album del signor Callahan siamo noi, l’ascoltatore che con la propria presenza ad intersecarsi negli spazi e nelle pieghe tra una canzone e l’altra, a regalare respiro e vita a quello che fondo potrebbe non essere altro che un piacevole album di Americana o Alt-country o come vogliamo chiamarlo, ed è forse tutta qui la potenza dei suoi dischi.

Si potrebbe quasi dire che la metà del lavoro, quando lo si ascolta, spetta all’ascoltatore, e che se si cerca l’eccezionalità con l’occhio critico si faticherà a rintracciarla…

Il mio consiglio è di lasciar respirare le note dentro di voi, lasciatele sedimentare come polvere su cortecce di alberi secolari in boschi disabitati, potreste scovare sempre qualcosa che non avevate notato.

V Voti

Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 4 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
REBBY 6/10
george 8/10

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.