Jeff Buckley
Grace
Considerando che il "Live at Sin-è" era un mezzo esordio, per così dire, dato l'esiguo numero di tracce (quattro), si può tranquillamente affermare che "Grace" è il vero e proprio esordio di Jeff Buckley, figlio di Tim Buckley, col quale condivide un'estensione vocale incredibile e (ahimé) una fine prematura. Dieci canzoni in tutto: tre cover ("Hallelujah" di Leonard Cohen, "Lilac Wine" di Jerry Shelton già interpretata precedentemente da Nina Simone e per finire "Corpus Christi Carol", di Benjamin Britten) e sette brani scritti da Buckley a volte con il compagno degli esordi, Gary Lucas, a volte con altri membri della sua straordinaria band.
Il risultato è un disco vicinissimo a quella che noi definiamo "Arte". Pochi secondi e Jeff ti entra dentro: "Mojo Pin" alterna sussurri, grida disperate ma mai violente, arpeggi delicati e rullate di batteria possenti. Tutto un alternarsi di sentimenti, sorretti da un testo meraviglioso che riesce a parlare d'amore senza nemmeno sfiorare la banalità. E "Mojo Pin" cede il testimone alla title-track: anche qui Jeff riesce a passare da un registro all'altro con una capacità incredibile, fino a quell'urlo finale che regala brividi lungo la pelle. E anche in questo caso bisogna sottolineare l'importanza delle parole, che non possono non far riflettere: "Non ho paura di andarmene, ma le cose avvengono così lentamente...", le ultime parole dell'ultima strofa, sembrano profetizzare quello che poi accadrà effettivamente. Se "Mojo Pin" era quasi jazz (anche se inquadrarla in un unico genere è difficile ma anche ingiusto) e "Grace" era un brano rock, "Last Goodbye" rappresenta il lato più pop di Jeff, sempre considerando "pop" nel suo significato più alto. I violini, le chitarre, il testo, l'interpretazione: se da un lato "Last Goodbye" può sembrare il brano musicalmente più "normale", per così dire, insieme a "So Real", dall'altro questa canzone può essere vista come una dichiarazione di libertà musicale visto che non segue nemmeno il classico schema "strofa-ritornello-strofa". Dopo i tre primi gioielli di produzione propria, Jeff ci presenta in una versione davvero minimalista "Lilac Wine", facendo suo sia un testo malinconico in linea con uno "stile Buckley" sia una melodia che esalta le qualità di interprete di Jeff, che stavolta abbandona gli acuti per cantare in maniera più dolce, anche perché è la canzone che lo richiede. "So Real", già citata, è certamente un brano rock "immediato", ma non per questo ha qualcosa in meno degli altri: anche qui infatti Jeff si conferma grande interprete, grande compositore, grande autore di testi. A "So Real" segue la seconda cover: "Hallelujah", tratta dal repertorio di Leonard Cohen. Basterebbe confrontare le due versioni: quella di Jeff, bisogna ammetterlo, supera perfino l'originale. Occorre aggiungere altro? Passati i quasi sei minuti di "Hallelujah", Jeff ci porta da un'atmosfera mistica ad una triste, malinconica: "Lover, You Should've Come Over" sale lentamente d'intensità, e nel frattempo ti entra nel sangue, nel cuore, nel cervello... e ti sembra di vederlo, quel corteo funebre che sfila in una veglia di tristi parenti con le scarpe bagnate dalla pioggia...
A questo punto del disco Jeff propone la terza cover, "Corpus Christi Carol", ed "Eternal Life", due brani agli antipodi, il primo è un canto religioso, il secondo è invece sorretto da chitarroni quasi noise. Due perle che non fanno altro che lasciare spalancata la bocca dell'ascoltatore e confermano la duttilità musicale di Jeff, sia come chitarrista e compositore, sia come interprete.
Il disco si conclude con "Dream Brother", il primo brano scritto da Jeff insieme a tutta la sua "ciurma". Il testo è ancora una volta pura poesia, e la musica passa dall'arpeggio iniziale, quasi orientaleggiante, a un intermezzo strumentale di notevole interesse. Una chiusura perfetta per un cerchio perfetto.
"Grace" è un disco unico, una vera e propria "esperienza". E' uno dei dischi che uno porterebbe sulla famosa isola deserta. Ma è soprattutto, purtroppo, un inconsapevole, magnifico testamento artistico e spirituale di un artista che (come dimostreranno le iniziative postume) aveva ancora molto da dire.
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