Red House Painters
Red House Painters (Rollecoaster)
Sappiate che potrebbe accadere anche così. E non ci provate neanche a fare i duri, quelli che dicono “A me non succederà mai”, “Io sono diverso”, e altre frasi ad effetto. Non è una cosa che si possa decidere. O quanto meno non sarete voi a deciderla per voi stessi.
Potrebbe capitarvi in ufficio, sull’autobus, durante una cena tra amici o in spiaggia. Potrebbe capitarvi ovunque. Potrebbe capitarvi, ad esempio, all’università, durante la solita mattinata fatta di quarti d’ora di lezione alternati con ore di pausa. Ecco, potrebbe succedere proprio durante quel quarto d’ora di lezione. Vi sedete nell’ultima fila disponibile – nonostante le centinaia di sedie vuote di fronte a voi – accanto ai soliti quattro amici buoni a nulla, pronti a intrattenere la consueta contro-lezione a base di musica, calcio, donne, progetti di serate destinate ad andare oltre il buon gusto e comunismo da bar. E questo volendo citare solo gli argomenti facenti parte della cosiddetta “legalità”.
Al solito, l’inizio della lezione richiama il vostro sguardo verso le prime file. E non perché un grassone unto, noto anche come “Docente in Scienze del Blablabla a Vanvera”, si è seduto in cattedra pronto a giustificare il proprio stipendio con il minimo sforzo possibile. In realtà aspettate solo che lei vada a prendere il suo solito posto in prima fila. Terza sedia partendo da sinistra. Non l’avete mai vista da vicino. Arriva sempre un minuto dopo il professore e se ne va nell’istante esatto in cui quel ciccione si alza dalla sedia.
Poi un giorno, senza apparente motivo (perché “il Signore opera in modo misterioso, ma porca miseria se opera”) lei arriva in aula, dà una rapida occhiata in giro, e punta dritto verso l’ultima fila. La vostra ultima fila.
È seduta alla vostra destra, vi separano quattro sedie vuote. Ma fate finta di nulla per proteggervi. Poi osate guardarla e notate che non sta affatto ascoltando le parole del Professor Trippa. Semplicemente, come voi, tormenta un pezzetto di carta con sgorbi ritorti e pensa ad altro. Anzi, notate che dall’orecchio spunta un auricolare che va ad infilarsi nella borsetta. State li a tormentarvi un po’, vi guardate in giro, non sapete che fare. Poi, improvvisamente, tutti si alzano dalle sedie e vanno verso l’uscita. Cazzo, è già finita la lezione. Avete passato due ore a chiedervi cosa fare. E non avete fatto niente.
Ma l’uomo, si sa, dà il meglio di sé in situazioni di crisi. Allora approfittate del caos, vi alzate di scatto e la raggiungete, lei è già in piedi e sta puntando la porta d’uscita. L’unica cosa che vi esce dalla bocca è, ovviamente, una stronzata: <<Cosa stavi ascoltando?>>. Lei vi guarda, sorride, mette la mano nella borsa e tira fuori una cassetta: <<Tieni, secondo me ti piacerà>>.
Sulla cassetta c’è scritto solo “Red House Painters”. La mettete nel vostro walkman, alzate il volume, e prima di ogni altra cosa notate il crepitio della puntina che impatta sul vinile. Buongustaia.
La prima traccia ha un andamento allegro, una bella ballata melodica sorretta da un voce calda e pulita (scoprirete, tempo dopo, che il pezzo si chiama “Grace cathedral park”). Subito dopo, venite avvolti da un abisso di dolore e desolazione della durata di settanta minuti. Musica per solitudine pensosa, o per profonda inquietudine. Brani spesso sorretti da poche note di chitarra (“Katy Song”), ma cantati in maniera incredibilmente intensa da quello che scoprirete essere uno dei maggiori autori e interpreti di quel genere chiamato sadcore. “Mistress” è un brano immortale, presente in versione elettrica e in (struggente) versione per piano e voce. Spesso le atmosfere si dilatano all’infinito (“Funhouse”, ma c’è poco da divertirsi …), altre volte Mark Kozelek (scoprirete che dietro tutto c’è praticamente solo questo ragazzo di Atlanta) gioca a fare il Nick Drake (“Take me out”), altre ancora disegna paesaggi in bianco e nero (“Rollercoaster”) o bozzetti folk-acustici (“New Jersey”).
“Mother” è una danza al rallentatore, tredici minuti di voci che si rincorrono, rintocchi lentissimi di batteria, melodie mandate al rovescio ed un senso generale da intima Apocalisse dei sentimenti.
A seguire, senza pausa alcuna, “Strawberry Hill”, il pezzo più bello: partenza sontuosa, voce rassegnata e chitarre shoegaze (“I can hear them / speaking in the next room / as they drink and start / losing control and get louder”), poi la voce alza la tonalità fino a gridare di dolore (“he’s not like all / the other boys around here / he’s says nothing and sits in his room”), per spegnersi in una coda infinita e senza speranza.
Ora, tutto ciò potrebbe anche non accadervi. E mi dispiacerà per voi. Perché è bello, a distanza di dieci o quindici anni, accorgervi che quel giorno vi siete innamorati anche dei Red house painters.
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