Nice Face
Immer Etwas
A quelli della Sacred Bones, si sa, piacciono i suoni corrosivi, distruttivi, acidi, meglio se un poco oscuri. Che è quanto piace a molta America underground (ma non solo) da qualche anno a questa parte. No-fi, rumori, abrasioni, lerciume, ronzii, elettricità gracchiante, glasse di fuzz ovunque, devoluzione sonora e interferenze-spazzatura: spesso per scelta, spesso (penso alla scena shit-gaze) perché non si sa suonare meglio di così (cfr. gli Psychedelic Horseshit). Sul fondo, però, sotto strati di sporcizia, si muovono melodie volentieri limpidissime, roba che nemmeno l’indie-pop più ‘pure at heart’, ma anche riprese del rock tradizionale (Jacuzzi Boys, Times New Viking), scazzi punk (Wavves), delizie new wave (Blank Dogs). Ossa del passato. L’amore sotterrato dalla merda.
Non stupisce, allora, che un giovane di Brooklyn di nome Ian Magee si crei un moniker pulitino e fighetto per un disco sfacciatamente zozzo. Dopo una serie di cassette e 7’’ vari, il debutto sulla lunga distanza di Nice Face è il trionfo del bello nascosto sotto il brutto, in una girandola di riferimenti musicali ubriacante e inusuale per eclettismo: un synth-punk robotico o gotico à la Zola Jesus (sempre Sacred Bones) si infetta di sudatissimo garage-rock, un post-punk virato industrial e macchiato di paranoia viene diluito da melodie giocose, drum machine immerse in panorami cyber sono calate in contesti 'weirdo' fancazzisti, pieni di puttanatine computeristiche e accidie da indie-kids ubriachi. Nice Face va dove Blank Dogs non è voluto andare con “Under And Under”, ossia in territori che, pur rimanendo pop fino al midollo, non disdegnano né una sperimentazione un po’ psicotica, né il gusto per la varietà e la schizofrenia.
Ne esce un disco divertentissimo, che però, nella sua insania distorta e graffiata, dice anche una potente disperazione, con il surplus di una scrittura pop da fenomeno. Canzoni, cioè, ce ne sono a bizzeffe, perché il gusto rovinoso di Magee non lo conduce mai lontano dalla loro forma: pezzi come “A Minor Altercation” (chessò: gli Wire shit-tizzati) o “Garbage Head” (armonie C86 nella pece più apocalittica), alle mie orecchie, sono già stand-out dell’anno. E la finale “Hard Time”, guidata da un organetto psych-rock tutto ’70, esalta, soprattutto nel finale gotico-zombie.
Ciò che più colpisce, nell’ascolto dei 13 pezzi – 19 nell’edizione in cd! –, è come la tradizione garage-punk più sanguigna, ma anche reazionaria, con tanto di uso quasi hard-rock dell’assolo (“Nobody’s Dead Here”, “Situation Is Facing Utter Annihilation”), si innesti in canovacci post-punk spaesati e glaciali: in alcune scorie sci-fi si infiltrano persino i Chrome (il finale di “Beater”), altrove le pesanti incursioni dei sintetizzatori hanno una geometria primi-’80 smaccata (“A Gasping Gash”, “Had To Let U Know”), eppure l’amalgama con la fisicità rock più classica avviene senza troppi scarti. Il blues noir sciancato di “Blood In The Well” (Sic Alps?) convive con l’‘ipnagogica’ “Decipher”, il rockenrolle suonato (“Invective”) con i ricamini da videogame (“I Want Your Damage”). Che è un bel modo di mimare l’inquieto ‘onnivorismo’ contemporaneo.
Tutto, ovviamente, ‘smerdato’ nella distorsione più bieca. Tutto rovinato, apposta. Lasciato marcire nello schifiltume più fastidioso. Il destino delle anime belle? Intanto, un gran disco.
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