Asobi Seksu
Hush
Spesso tendiamo a definire noi stessi in riferimento a ciò che pensiamo che gli altri pensino di noi, a diventare vittime delle categorie analitiche entro cui gli altri ci classificano, sempre più spesso si viene etichettati in un certo modo e finiamo per credere anche noi che l’etichetta con cui siamo individuati, che ci viene applicata, rifletta veramente ciò che noi siamo, ciò che facciamo.
Sfuggirle diventa tremendamente difficile e spesso anche i più impercettibili spostamenti risultano uno sforzo sovraumano.
Se queste idee, liberamente mutuate (e banalizzate) dalle teorie sociologiche dell’interazionismo simbolico (Mead, Thomas) e dell’etichettamento (Becker) valgono qualcosa, allora forse la piccola ma coraggiosa virata stilistica degli Asobi Seksu è da premiare.
Hush suona infatti stranamente distante rispetto al suo predecessore, quel Citrus che aveva portato i Nostri all’attenzione generale del popolo indie. Stranamente perché se si dovessero tentare di ricostruire i riferimenti (a proposito di etichette), si potrebbe tranquillamente continuare a parlare di indie pop e shoegaze; ma a cambiare qui non è tanto la forma, quanto il contenuto.
Laddove (Citrus) proponeva canzoni con una struttura ben definita, consueta e funzionale alla riuscita di deliziosi e perfetti ritornelli pop, qua (Hush) la musica è un flusso più o meno anarchico di melodia. Ciò che non significa che siamo in presenza di un modo di comporre rivoluzionario e avanguardistico, ma che i suoni appaiono maggiormente liberi e viscerali. Questa è almeno la visione generale che viene da un ascolto senza interruzioni dell’album. Una visione generale che ovviamente ammette eccezioni, come emerge ad esempio nel caso di I can’t see o di Me & Mary, in cui l’enfasi è rivolta a colpire l’ascoltatore con quel meraviglioso effetto speciale che è il ritornello orecchiabile.
Anche il modo di usare il feedback è cambiato: elemento protagonista e costitutivo nei due dischi precedenti, molto più secondario e di contorno qui, sempre atmosferico e riverberato. Rumoroso in pochissime occasioni (il finale della già citata Me & Mary, primo singolo estratto, qualche eco in Mehnomae e Glacially).
Se da questo punto di vista il suono Asobi Seksu sembra prendere le mosse dallo shoegaze dei My bloody valentine, il gruppo di Shields è invece molto più vicino che in passato nell’ adottare un alternative pop delicato ed etereo senza mai essere zuccheroso e dei ritornelli accattivanti senza essere banali. Merito anche della bellissima voce della Chikudate, tagliente e garbata allo stesso tempo. Le performance migliori sono racchiuse in Layers, un dream pop impalpabile con dei crescendo intensi e suggestivi, Familiar light, quasi una versione sintetica di Hong Kong garden (Siouxsie and the banshees) e Sunshower, dalle strane cadenze twee pop (come una Isobel Campbell che fa una cover dei Cocteau twins).
Le difficoltà a lasciarsi alle spalle gli ostacoli che rinchiudevano il sound degli Asobi seksu entro specifici cliché, sembrano essere state superate, così come i paragoni con i suddetti My bloody valentine e con i Lush, ma la virata rischia però di far arenare il gruppo in un’ altra secca ancor più arcigna: quella di un altro paragone, quanto mai pertinente, stavolta con i Blonde redhead. È in effetti abbastanza evidente una notevole somiglianza (che purtroppo va oltre la semplice influenza stilistica) fra questo Hush e le ultime fatiche del gruppo mezzo italiano (anzi, per due terzi)d’origine, in particolare con il loro 23 del 2007. Somiglianza quanto mai scomoda, anche perché in riferimento a due gruppi che sono entrambi di stanza a New York e le cui cantanti, entrambe giapponesi, hanno tonalità vocali piuttosto affini.
In ogni caso Hush, anche se non particolarmente originale, è un album che mostra una certa crescita del gruppo e che ne ribadisce la posizione di prestigio all’interno della fertilissima scena indie Newyorkese.
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