Chapel Club
Palace (+ Wintering EP)
Il disco dei Chapel Club è uscito ieri, 31 gennaio 2011. Il loro nome circola in realtà da fine 2009, quando "Surfacing" ottenne un discreto airplay nella fascia alternativa della BBC. Il singolo non trovò però pubblicazione nell'immediato, a causa di un vincolo legale: il ritornello riprende infatti parte del testo dallo standard "Dream A Little Dream Of Me". Il primo brano ufficiale della band diventa così "O Maybe I", nel febbraio 2010: da lì a oggi uno stillicidio di brani pubblicati col contagocce, centellinando la proposta e cercando di far crescere spasmodicamente l'attesa dei fan. Del resto in tempi di crisi commerciale irreversibile per l'indie-rock britannico, puntare sulla fedeltà di pochi può rappresentare la salvezza, vieppiù quando una band produce un tipo di musica già di per sé poco appetibile. Perché è inutile nascondersi dietro a un dito: i Chapel Club fanno shoegaze. Il cui vertice commerciale è rappresentato a tutt'oggi da "Going Blank Again" dei Ride, centomila copie vendute in oltre quindici anni. Non esattamente roba da sguazzare nell'oro.
"Palace", prodotto per otto brani su dieci dal mai troppo lodato Paul Epworth, contiene quindi cinque canzoni già note come singoli e ne svela altrettante per la prima volta. Ascoltandolo si comprende senza difficoltà quanto la band abbia sbagliato epoca: in un contesto in cui l'alta definizione si ritrova umiliata, in cui nascono addirittura correnti come la witch house, dichiaratamente mirate all'ascolto su iPod, in cui qualsiasi cosa provi a stratificare e ripulire i suoni più del dovuto viene messa alla gogna come pomposa, i Chapel Club se ne escono con canzoni perfettamente strutturate e graniticamente classiche, relegando tutta l'originalità di cui sono capaci al ricamo, alle textures, ai particolari da ricerca maniacale che ormai non interessano più l'e(ste)tica indie. Avrebbero fatto prima a appendersi addosso un cartello con scritto a caratteri cubitali "additateci come derivativi" (con sotto una illeggibile nota precisante "anche se in realtà non lo siamo").
Lewis Bowman ha una voce impostata, potente, tocca profondità baritonali e si erge con convinzione dall'impasto strumentale, non ne viene risucchiata, non si ritrova a vagare nel caos sottostante. Un espediente che permette di evitare alla band il primo degli stereotipi accomunabili allo shoegaze. L'inesperto cantante rimanda anzi alla vecchia gloria Ian McCulloch: a accomunarli è il timbro vocale, la solennità delle melodie, i testi evocativi. I Chapel Club sembrano riprendere il concetto di Big Music che ossessionò Echo and the Bunnymen nella fase fra il secondo e il quarto album, agghindarlo in veste shoegaze e giocare poi sull'intarsio. E' questo che conferisce alla loro proposta il senso di classicità sopra accennato. I fan dell'innovazione a tutti i costi dovranno invece armarsi di un paio di buone cuffie e di un po' di pazienza: osservati da vicino, gli arrangiamenti svelano un mondo a parte. I Chapel Club condensano in forma omogenea un numero imprecisato di input, specie nelle parti chitarristiche.
Un brano come "Five Trees" è paradigmatico del loro stile: nell'intro le chitarre salgono in modo innaturale, come se scivolassero su una scala di ghiaccio, dopodiché è un infittirsi di giochi, fra linee di tremolo e chorus, note sparse deformate da distorsore e compressore, intermezzi non dissimili da una tempesta di wah wah. Ogni effetto è ben calibrato e benché non ecceda oltre la propria area, il risultato complessivo è stordente e rende difficile l'individuazione delle fonti (esempio: sono tastiere quelle piccole intermittenze che a 0'40'' e 1'30'' emergono dal marasma per poi rituffarvisi?).
Il disco si muove tutto lungo questa filosofia, variando però la struttura di base, qualora necessario: "After The Flood", guidata da un possente basso post-punk, cresce in un trionfo marziale; "All The Eastern Girls" (unica loro mini-hit finora) si svela delicatamente indie-pop per poi esplodere in un ritornello tutto colpi di batteria; "White Knight Position" corre a perdifiato su chitarre shakerate e vitali deflagrazioni soniche; "O Maybe I" applica la formula al jangle-pop vecchio stampo; "Fine Light" si apre come una marcia angelica, degna dei migliori Slowdive, e all'improvviso scatta in una cavalcata torrenziale, talmente inaspettata che quasi ci si vergogna a spoilerarla in una misera recensione.
A "Surfacing", breve intro ambient a parte, il compito di aprire le danze: con suo incedere maestoso di basso e batteria non poteva essere un biglietto da visita migliore. Amabile è il gioco di decontestualizzazione che vede vittima "Dream A Little Dream Of Me": Bowman costruisce l'intero ritornello usando le parole d'amore del vecchio hit (memorabile la versione di Mama Cass), cantandole su una melodia nuova di zecca. Un espediente divertentissimo, spiazzante: la distorsione di un dejà vu, il riconoscere un suono familiare, benché sfasato nella progressione. In più, il significato ne esce stravolto, grazie all'abbinamento di un video a base di fanatismo religioso e crisi mistiche, e a strofe inedite come "Strange the god of your name is piscean too, Shells and silvery scales and torrents of blue, One more pilot fish come to swim with the shark, Dreams of bloody slip streams, picks meat from their mouths" (una stramba invocazione a divinità-pesce che tira in mezzo alla rinfusa limpidi torrenti, carne e rivoli di sangue).
I sei minuti di "The Shore" rappresentano l'opus del disco: massiccia come il suono di una montagna che crolla in mare (mi perdoni Mark Beaumont per l'appropriazione della splendida metafora), con la batteria che a ogni colpo di rullante si frantuma in una serie di gigantici echi, spinge al limite il sinfonismo chitarristico, mentre Bowman lamenta simbolismi sul tempo passato neanche fosse in crisi di mezza età ("I dusted for forgotten fingerprints on graves, In every hidden place along the shore") e nel ritornello arriva a appellarsi "you liar, you coward, you snake".
Non è però il loro brano più lungo. Chi riuscirà infatti a accaparrarsi la limited edition di "Palace", troverà allegato un secondo cd contenente i quattro brani usciti in dicembre come "Wintering EP": fra di essi "Widows", che regna dall'alto dei suoi otto minuti. Una cantilena in cui strofa e ritornello arrivano a diluirsi e perdere struttura l'una nell'altro, tanto da sviluppare alcune varianti (una delle quali chiude la processione). Le chitarre sono miracolose: cristalli imprendibili che roteano in un etereo gioco di riflessi. Ognuna crea un pattern che viene richiamato dall'altra leggermente modificato, e così via fino a che il tessuto si addensa a tal punto da perdere contatto con la matrice originaria (il tutto nello spazio di due soli accordi). Si aggiungano la chitarra slide che piange in lontananza, la linea solista in prossimità del ritornello, gli incastri di pianoforte, e si otterrà un gioco di textures con cui i Chapel Club raggiungono stralunati vertici di creatività e complessità.
In attesa di vedergli fare capolino per una settimana nella classifica inglese e poi scomparire, e benché certa stampa non voglia esporsi troppo (è proprio NME a nicchiare questa volta), dare una possibilità al quintetto londinese risulta un obbligo morale, almeno per gli appassionati di certe sonorità.
Grazie a Matteo Losi per il supporto, come sempre.
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