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R Recensione

7/10

Malory

Pearl Driver

Nell’ultimo decennio lo shoegaze ha acquisito una dimensione decisamente più internazionale, oltrepassando i confini del suo luogo di origine, ovvero le isole britanniche. Vent’anni fa i primi shoegazers muovevano i loro primi passi fra Scozia, Inghilterra e Irlanda, ad oggi pare che siano veramente pochi i paesi occidentali a essere rimasti indifferenti al verbo di questo genere musicale.

Vuoi nelle sue forme più pure, vuoi contaminato con altri generi (indie, elettronica, revival new wave, ecc…), in ogni caso sembra proprio che i suoi germi si siano sparsi un po’ ovunque, come ad esempio, tanto per citare alcuni casi eclatanti, in Francia (Alcest, M83), in Svezia, ove è al servizio e/o collabora proficuamente con l’indie pop locale (Club 8, Legends, Radio dept.), in Giappone (Cosmic dust, Asobi seksu, Luminous orange), o negli Stati Uniti dove dalla scena di New York sono emersi gruppi dal calibro di A place to bury strangers e Crystal stilts, e in Germania, paese che, fra gli altri, ha dato i natali proprio ai nostri Malory, la cui parabola artistica, iniziata con l’album d’ esordio Not here not now nel 2000 ha coinvolto tutto il precedente decennio.

L’accostamento agli Slowdive non se lo sono mai scrollato di dosso, e del resto la somiglianza con il mitico gruppo di Reading è palese. Ma non per questo bisogna commettere l’errore di identificarli come gruppo di mero revival della prima shoegaze. Trattasi in realtà di una band  in grado di mediare in modo impeccabile fra le esigenze di tramandare fino a noi  le intuizioni creative di Ride, Lush e Swervedriver e quelle di attualizzare la loro proposta in linea con gli sviluppi e le contaminazioni che questo genere ispira continuamente. Ciò appare evidente nel loro ultimo lavoro, il quarto, intitolato Pearl driver, sul quale, sebbene l’amore per gli Slowdive sia ribadito più volte (è il caso di The signs, splendida dream pop song d’altri tempi; ma ancor di più in Secret love ove il flusso sonoro si fa meno impetuoso e lascia spazio allo spettacolare duetto di Joerg Koehler e Daniela Neuhaeuser), il quadro si colora di tinte cromatiche variegate, a cominciare dall’ intro in spoken word di Floating, pezzo strumentale de facto, atmosferico (à la Sigur ros) e liquido.

Che dire poi della cupa e decadente Water in my hands, che palesa affinità elettive con la dark wave rumorosa dei Jesus and Mary Chain, ma che fa l’occhiolino, soprattutto nell’ultima parte, anche a certo ambient gothic mitteleuropeo.

Ma l’expo dei Malory non si ferma qui: mettono in mostra anche un twee pop lo-fi (almeno nell’attitudine) un po’ Delgados, e degli intermezzi strumentali in odore post rock spesso poco convincenti (Dragon in you) altre volte piuttosto elaborati e vibranti (la suite alla Mogway di Ajar door). Infine, è da rimarcare la presenza massiccia degli effetti elettronici, il synth è anzi strumento costitutivo del loro suono: tanto che il suo uso spesso travalica la stessa definizione di campo della shoegaze, come in Tornado, ipnotico synth pop dalle reminiscenze new wave, affine al suono degli Screen vinyl image e che comunque mantiene le distanze dall’ electro shoegaze che imperversa fra Francia e Germania.

Menzione particolare per la lunga e complessa Sarah che trova quasi paradossalmente il suo apice nel diminuendo finale, nella deliziosa cantilena dreamy che accompagna lo spegnersi delle ultimi pulsazioni elettriche dei synth.

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