Swervedriver
I Wasn't Born To Lose You
Chi li ha scorti nel recente documentario Beautiful Noise, durante il minutino scarso a loro dedicato (e gli è andata bene: a tanti altri gruppi meritevoli l'onore è stato negato), non può non averli percepiti come diversi. Di sicuro non ai livelli di palingenetica estraneità incarnati da Alex Ayuli (A.R. Kane), anch'egli convocato a rievocare genesi, vita, morte e rinascita dello shoegaze e aree limitrofe, ma nondimeno diversi.
Il look, tanto per cominciare. Nei primi '90s, l'ammasso di dreadlocks sulle capocce di Adam Franklin e del bassista (poi dimissionario) Adi Vines faceva apparire gli Swervedriver assai più selvatici dei fratellini Slowdive o Lush, alla stregua di cugini fissascarpe dei Korn (però fighi e soprattutto non metal). Poi, naturalmente, la musica. Abbeveratasi in gioventù alle fonti del garage-rock, la band di Oxford è stata, insieme ai Catherine Wheel, una delle manifestazioni più muscolari dello shoegaze: di sicuro la più grungy, una band nella quale l'influenza dei Dinosaur Jr., oltre a scavalcare in proporzione quella dei The Jesus & Mary Chain, era qualcosa di più della semplice premessa metodologica a cui avevano aderito molte formazioni ad essa contemporanee. Non è un caso se Billy Corgan, che nel 1993 li ha voluti in tour come spalla dei Pumpkins a zonzo per gli States, ancora oggi nota come il loro suono si armonizzasse in modo naturale all'alternative rock americano dell'epoca, cosa che non si sarebbe certo potuta affermare a proposito delle altre band british di cui si occupa il documentario di Eric Green.
Tutto ciò sia detto non con l'assurdo fine di estirpare il gruppo dal suo contesto originario per riposizionarlo oltreoceano - le connessioni con lo shoegaze sono lapalissiane, così com'è innegabilmente quello l'ambiente nel quale la loro proposta ha germogliato e attecchito (assai meno di quanto si meritasse, a dirla tutta) - ma piuttosto per sottolinearne le peculiarità e ricordare, ancora una volta, le tante sfumature di un percorso preferenziale che ha caratterizzato l'indie-rock britannico da metà '80s e che è terminato quasi un decennio più tardi, in coincidenza con l'avvento del brit-pop.
Dei quattro album pubblicati prima dello scioglimento, almeno i primi due (Raise del '91 e soprattutto l'epocale Mezcal Head del '93, che inaugura il sodalizio con Alan Moulder) restano classici, per tacere dell'altrettanto essenziale EP Never Lose That Feeling (1992, la Title Track che deraglia in un delirio chitarristico allucinato di quasi dodici minuti + intrusioni di sax free-jazz), dell'ottimo Ejector Seat Reservation datato 1995 (ultimo album uscito per una distratta/incurante Creation, nonché pomo della discordia tra la band e la A&M che li pubblicava negli Stati Uniti), e d'un glorioso corpus di b-side, sparse tra singoli ed Ep (la pur generosa raccolta Juggernaut Rides '89-'98 non è assolutamente esaustiva), da far impallidire persino i mammasantissima dell'intera scene that celebrates itself.
Il nuovo I Wasn't Born To Lose You suggella non solo gli ultimi sette anni di fortunati mini-tour in UK, Australia e soprattutto Stati Uniti (prima esibizione al Coachella, Aprile 2008, quasi a ringraziare Pitchfork per aver contribuito a riaccendere l'interesse nei confronti della band), ma l'intero revival dei pezzi da novanta dello shoegaze, specie ora che anche i Ride sono tornati in pista. A differenza di m b v, non ha l'aspetto di una presa per i fondelli delle aspettative di critica e pubblico, entrambi puntualmente cascati nel tranello: questo è un lusso che Adam Franklin non può concedersi, non essendo nel frattempo stato mitizzato all'inverosimile (qualcuno ha detto Kevin Shields?). No, I Wasn't Born To Lose You è molto di più. E' la ricostruzione di un legame profondo, l'esibizione di un codice di appartenenza. Lo si realizza immediatamente, a partire dalla copertina che ripropone quell'immaginario automobilistico già incapsulato nel loro Ep d'esordio, Son Of Mustang Ford (1990), e capace di attraversare tutta la loro produzione. Non solo retaggio di uno dei temi topici del rock'n'roll fin dai suoi primi vagiti, ma veicolo di feticismi e allegorie: primo fra tutti il viaggio come condizione esistenziale, spaccato in itinere di processi vitali e desiderio di scoperta.
Fuori dal finestrino il paesaggio è desertico, ribollente di un'energia primordiale. L'uno-due iniziale Autodidact/Last Rites ne assorbe le vampate, i contorni sfocati, grazie agli intrecci briosi/stordenti delle chitarre di Franklin (per il quale i dreadlocks sono ormai un lontano ricordo) e Jimmy Hartridge (le care pedaliere a estendersi fin dove l'occhio può arrivare...), sempre prodighe di accordature anomale, riff granitici (Red Queen Arms Race) alternati o miscelati ad arpeggiate trasparenze (il singolo Setting Sun), soluzioni timbriche/armoniche inconsuete (i mille volti di Lone Star). La scatenata Deep Wound, uscita come singolo già nel 2013, mostra al meglio le dinamiche del loro interplay: un rincorrersi/incastrarsi/sovrapporsi di chitarre che appaiono all'improvviso, ciascuna con timbrica, effetti e fraseggi inediti, al preciso scopo di mandare in tilt i sensi, esaltati e (positivamente) confusi da quanto sta accadendo.
Ma le sei corde non potrebbero concedersi simili libertà se non potessero fare affidamento sul basso di Steve George, bussola capace di compattare le fila del sound (eppure talvolta imprevedibile nel suo escogitare variazioni, a mò di terza voce solista), e sul drumming impetuoso di Mickey Jones. Il canto dello stesso Franklin sembra riassumere la natura ambivalente, double-face, della band: robusto ma dimesso, uno e trino (spesso raddoppiato da un controcanto o accompagnato da cori che fanno molto West Coast, come in English Subtitles), epitome di un sound tanto esplosivo quanto introverso, stavolta più ancorato alle maestosità indie-rock di Ejector Seat Reservation e 99th Dream che non alla furia sognante degli inizi. Ciò nonostante, i quasi sette, epicissimi minuti di Everso e il crescendo marziale di I Wonder restano tra le infatuazioni più liberatorie del loro catalogo: l'abbandonarsi al suono con esaltazione e un pizzico di timore, come sempre è stato per questi musicisti sopraffini.
Un album di canzoni solide, I Wasn't Born To Lose You, che sarebbe sciocco/limitante leggere alla luce del presente. La sua collocazione nel 2015 è puramente casuale: sarebbe potuto uscire tranquillamente a fine '90s, nel momento stesso in cui la carriera degli Swervedriver subì il primo, pesante arresto. Vive in un tempo diverso, quello della mente. Riposa, sottilmente inquieto, nel limbo delle creazioni che sfuggono alla Storia. Che la beffano, anzi. Dischi del genere servono e serviranno sempre. Così come sempre si sentirà - o almeno io sentirò - la necessità di saperli al contempo vicini e lontani, manufatti che non mutano la nostra percezione dell'oggi (qualunque cosa significhi) se non nel senso di eluderne il contatto. I Wasn't Born To Lose You non sposta di una virgola le vicissitudini della musica contemporanea, non ne ha bisogno. La sua finalità è celebrare: gli Swervedriver prima di tutto, e indirettamente la scena che li ha visti fiorire. Ossia quella koinè creativa di mostri sacri che oggi ritrovano l'energia per riprovarci, con la consapevolezza di aver fatto sentire il loro peso, rinfrancati da un realismo che non ripudia il cash (finalmente un po' di pragmatismo). Oggetti fino a qualche anno fa oscuri, confinati a supporti cartacei/fonografici e alla nostra immaginazione, che oggi tornano in vita, semi-nuovi, davanti alle nostre pupille increduli e velate di nostalgia. Questa è la vera scena che celebra se stessa. Quella celebrava il mondo.
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