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R Recensione

5/10

Shanir Ezra Blumenkranz

Abraxas: Book Of Angels, Vol. 19

Usciti galvanizzati e tonificati dall’ascolto di “Pruflas”, quasi a rafforzare la diceria che non basti un grande compositore a rendere grande un intero gruppo, impossibile non notare il marchiano salto di qualità che si verifica nel breve lasso di tempo necessario ad unirlo al suo successore, “Abraxas”. Cerchiamo di fare un passo indietro. Shanir Ezra Blumenkranz, nome che più ebreo forse non si sarebbe potuto combinare, proprio come David Krakauer è un nome meno conosciuto – ma non minore – nella sterminata galassia di collaboratori, turnisti, amici e compagni di squadra di Tzadik, l’alcova-etichetta di John Zorn. (Contrab)bassista di nemmeno quarant’anni, lungocrinito e barbuto sulla scorta del miglior Jamie Saft, ragazzo prodigio il cui stile è stato inevitabilmente influenzato e rimodellato dalle vampe piroclastiche del jazz d’avanguardia di Brooklyn, non ha ancora potuto emergere come forte figura di riferimento nella big band zorniana, causa contemporanea copertura di ruolo del più esperto (e blasonato) Trevor Dunn. Ciò nonostante, il suo curriculum brilla di comparsate stellari, non da ultime quella in “Voices In The Wilderness” – rilettura di alcuni classici Masada, a dieci anni dalla formazione del fortino klezmer più inafferrabile di sempre, sulla scia della strepitosa antologia a quattro chitarre classiche di “Masada Guitars” –, nel trio minimale che suonava le musiche del quindicesimo capitolo della serie FilmWorks, “Protocols Of Zion” (2005) e nel nucleo allargato dell’estetizzante “Belle De Nature / The New Rijkmuseum” (2009).

Nel catalogo Tzadik vi sono, orientativamente, almeno due dischi che aiutano ad inquadrare, con efficacia, il baricentro di “Abraxas”. Per la prima scelta, si gioca in casa: più nello specifico, con il ripescaggio dell’omonimo esordio dei Rashanim di Jon Madof (2003), pirotecnico power trio attivo all’inizio del Nuovo Millennio, un inusitato calderone dove traditionals e standard della liturgia religiosa venivano pirogassificati da un cocktail terremotante di indolenza klez, risacche surf rock e convulsi fraseggi noise. Al basso, proprio Shanir Ezra Blumenkranz. Tre anni più tardi, toccava al misconosciuto polistrumentista londinese, il prodigio Koby Israelite, imprimere a fondo il proprio schizofrenico trademark nella pasta di uno dei Book Of Angels, il quarto, qualitativamente migliori di sempre, lo zappiano “Orobas”: Zappa, per l’appunto, come l’avrebbe inteso Zorn, un filotto di brani da capogiro ed un’esecuzione polimaterica, ondivaga, incredibile. Necessario è cercare di tenere sempre a mente questi due poli, che si attraggono e respingono più volte, nella presa di forma (e coscienza) di “Abraxas”.

A voler ridurre il tutto ai minimi termini, si potrebbe chiosare: ascoltatevi “Domos” e buttate il resto. Nei quattro minuti dell’opener del disco si concentra, infatti, l’intera lista di peculiarità ed ossessioni che, ricorsivamente, non mancheranno di ripresentarsi nel corso della scaletta. Blumenkranz attacca con il suo fidato gimbri, da solo, in sordina, arrampicandosi su un’infinità di scale di quinta che, inavvertitamente, si incendiano in uno scatenato mantra chitarristico, una litania martellata da un incalzante senso ritmico della posizione, con i Del-Tones a cantare, riverberati, dall’alto di un minareto: l’esempio di cosa sarebbero potuti essere i Sonic Youth in sinagoga, o il funk nero sballottato tra le onde della California. Più in basso, anche le geremiadi strumentali di “Aupiel”, che si fiondano, a precipizio, in una voragine stratiforme di tagliente tecnicismo, regalano scampoli di soddisfazione, così come il crescendo innaturale di “Zaphiel”, portamento impettito e rigoroso che annega, in coda, dentro un lago di wah distorto e disarmonizzato.

Più spesso, tuttavia, trionfa la staticità. Se i brani originariamente composti da Zorn possono essere resi in modi sempre uguali e sempre diversi (gli esperimenti di Masada prima, Book Of Angels poi, si basano proprio su questo assunto), sta alla sensibilità degli esecutori aggiungere equilibri, sottrarre cromatismi, inoculare personalità. “Abraxas” appare, perciò, come un’insoluta bene agghindata o, se preferite, come uno zoppo ai blocchi di partenza di una maratona: a disagio. Il quartetto orchestrato da Blumenkranz suona spesso come una versione di seconda mano dei Rashanim (la Sixties-oriented “Nachmiel”, la lenta e sorda carburazione di “Maspiel”), cercando ibridi crossover anche laddove pagherebbe una maggiore sintesi (ancora “Maspiel”, ombreggiata doom, la solennità fuori luogo di “Biztha”, i secchissimi break hard di “Tse’An”) ed esagerando, inutilmente, nell’esibire una perizia strumentale di per sé innegabile (“Muriel” arriva a dissestare il proprio complesso scheletro prog-klezmer con rasoiate di terrificante shredding, ai limiti del thrash).

Conforta sapere che, per gli gnostici, Abraxas era il sommo dei 365 cieli di cui si costituiva l’ordine materiale: entità che, nel cristianesimo, è passata poi a simboleggiare uno dei più potenti bracci destri di Satana, demone dalla testa di gallo, dal tronco antropomorfo e con due serpenti per gambe. Una metamorfosi mica da ridere, insomma. La stessa che, confidiamo, possa prima o poi interessare anche il gruppo di Shanir Ezra Blumenkranz.

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