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R Recensione

5,5/10

Gary War

Jared's Lot

Per un curioso allineamento temporale, sono usciti pressoché in contemporanea i nuovi dischi di Ariel Pink, John Maus e Gary War. Una valanga di pop rétro, pasticciato e psichedelico, con cui mandarsi in pappa le connessioni neurali in qualche pomeriggio estivo. E una constatazione inevitabile: i tre, qualche anno fa tutti assieme negli Haunted Graffiti pinkiani, stanno proseguendo le loro traiettorie nella stessa macro-dimensione, ma ormai senza più incrociarsi.

Se Pink diventa sempre più ripulito e più schiettamente pop, Gary War continua a contorcersi nei garbugli di un synth-pop marcio, tutto costruito su disarmonie e sfasature, imbottito di droga robotica che altera continuamente i piani melodici, su basi retrofuturistiche scompigliate e di difficile decifrazione. Rispetto a “Horribles Parade” (2009) la fedeltà è meno shitty, ma la sostanza sonora non cambia, tanto più se la voce, dove compare, è sempre stravolta da effetti androidi: i bleeps e gli arpeggi di synth, le tastiere stranite e le colate cosmiche di effetti creano un mondo alieno, a volte non ricomponibile (“Thousand Yard Stare”), altre magnificamente catchy, almeno in alcuni segmenti che sbucano fuori dal caos (“Superlifer”, apice).

Ecco, se c’è un problema con “Jared’s Lot” (e c'è) è che il bordello intergalattico in alcuni frangenti deborda, per effetti di poltiglia e marmellata imbottigliata da visitors che funziona solo in micro-aperture, anche dopo molti ascolti (“Advancements in Disgust”, “Careless”). Meglio dove si cercano soluzioni in una psichedelia quasi tradizionale, dai suoni liquidi e dai tratti elettronici meno spigolosi (“World After”).

Vero è che Gary War, rispetto al maestro Pink ma anche a Maus, torvo ma pur meno aggrovigliato, trova il suo senso proprio nelle involuzioni autistiche, nei dedali, negli spazi iper-stipati di suono e nelle nevrosi. Richiede, in sostanza, una dose di febbre maggiore. Si va a imbucare nella dismorfia schizoide dove Ariel Pink esce in gloria. Con il pericolo, sempre latente ma qua manifesto almeno in metà disco, di invilupparsi troppo in se stesso. Better next time, Gary.

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