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R Recensione

6/10

Claudio Simonetti

Demoni O.S.T. (ristampa)

Per festeggiare i trent’anni di Demoni, apice artistico di Lamberto Bava assieme a Macabro (fingiamo che Shock sia solo ed interamente di Mario…), la rampante Rustblade rende nuovamente disponibile la colonna sonora composta da Claudio Simonetti, corredata da alternate takes delle stesse sessions e da un disco di riletture dark wave degli originari brani strumentali (a noi non reso disponibile: perché?). Polemiche a parte, si tratta di un interessante ripescaggio, che permette oggi di valutare, con la corretta profondità storica, sia l’horror (uno degli ultimi lampi d’autore di un genere che, con la scomparsa dei nomi minori e l’offuscamento delle stelle di Argento e Fulci, entrava in declino) sia la performance dell’ex tastierista dei Goblin, già autore solista della soundtrack del Phenomena argentiano (1984) e, all’epoca, gravitante attorno all’universo della dance (lo “scandalo” del Gioca Jouer ha, allora, appena tre anni). Apparentemente marginali, quelli nominati sono in realtà due aspetti basilari della questione Demoni, indispensabili per capire nel dettaglio le mutazioni macroscopiche di un suono e, contemporaneamente, di un modo di fare cinema.

Sul film non ci soffermeremo oltre: non è la sede opportuna. Parliamo invece di musica, in questi stessi giorni in cui i vecchi sodali Fabio Pignatelli e Agostino Marangolo ritornano in pista con i malinconici Goblin Rebirth. La title track è la quintessenza del Simonetti ottantiano e, più in generale, di un intero decennio in note (e in acconciature): pacchiana, esuberante, sopra le righe. Quale differenza tra la psicotica, tentacolare adrenalina di una “Death Dies” e questo roboante pastiche synth rock a ritmo di percussioni esotiche e drum machine, con Rick Springfield a sbottare in sottofondo “kill her!” e una citazione, che più sfacciata non si potrebbe, del tema portante di I Dovregubbens Hall di Edvard Grieg (un rimando ulteriore al langhiano M?)! Eppure Simonetti è questo, lo stesso che modulava al vocoder il fatale trisillabo pa-u-ra nel plastico prog-funk di “Tenebre”, o rovesciava gli stilemi gotici della mystery tale negli anabolizzanti street metal di “Phenomena”: prendere o lasciare, tertium non datur. Se poi c’è un brano che ribadisce con convinzione superiore il nuovo status del musicista, la frontiera del kitsch senza ritorno, sarebbe sicuramente “Out Of Time”, un adorabile-detestabile Rondò Veneziano del secolo vigesimo da cui fuoriesce una sinuosa serpe lounge per Roland e piano elettrico.

Non si può aggiungere molto altro, a dire la verità, su un lavoro fin troppo scarno che, in origine, era infatti rimpolpato da altri brani, perlopiù hit rock di quel periodo (“Save Our Souls” dei Mötley Crüe, “Everybody Up” dei Saxons, “Fast As A Shark” degli Accept, “White Wedding” di Billy Idol…), anch’esse non incluse in questa ristampa. Tutto ruota, in definitiva, attorno a “Demon” (proposta in cinque versioni diverse: interessante la nudità del demo originale per solo piano, inutilmente fracassona la rilettura metal dei Daemonia in un concerto losangelino del 2002, discreta l’inedita “Demon’s Lounge”) e alle incalzanti, tamarre elettriche di “Killing”, molto vicine ai Def Leppard pre-“Hysteria” (!).

Il puzzle che si compone, al termine dell’ascolto, è quello di una lente d’ingrandimento puntata su un autentico reperto archeologico, fastose vestigia da decadente tardo impero e, a suo modo, onesta e verosimile dichiarazione d’amore verso seconda e settima arte. 

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