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R Recensione

6,5/10

John Carpenter

Lost Themes II

La concatenazione logica dovrebbe comporsi grossomodo come segue: al sottoscritto infastidiscono oltre ogni misura certi suoni anni ’80 --> il vecchio John Carpenter basa i propri dischi su certi suoni anni ’80 --> al sottoscritto infastidiscono oltre ogni misura i dischi del vecchio John Carpenter. Se non fosse che non è umanamente possibile avercela con l’uomo di Carthage: nemmeno se un giorno si svegliasse e decidesse di convertirsi al reggae. Certo, chi molto ama deve esplicare il sentimento anche, e soprattutto, nei momenti negativi, recita l’andante: una specie di protezione dai brutti colpi. Per come irrompe sulla scena, per come si presenta inizialmente, “Lost Themes II” sembra dare l’impressione della coltellata alle spalle, della bruciatura viva: occorre lasciar decantare, maturare il materiale, pazientemente. Il tempo è un concetto chiave in ambedue i sensi, non da ultimo quello differenziale, giacché è l’unica discrepanza (di peso: più si scava, più i corpi si fanno sempre meno comunicanti) che oppone fra loro “Lost Themes” e “Lost Themes II”. L’esordio-non esordio dell’anno scorso, su Sacred Bones, raccoglieva una lista eterogenea di composizioni abbozzate negli anni, ma non ancora fissate su supporto fisico. Questo successore (in cui trovano posto, ancora una volta, anche Daniel Davies e il figlio Cody) è maturato per l’occasione, meditato come secondo anello di una catena ora, ufficialmente, in divenire.

Parlavamo, generalmente, di una non meglio indicata delusione che l’approccio di “Lost Themes II” può generare nell’ascoltatore meno scaltro. La scelta più eclatante è quella di trasformare l’indistinto e suggestivo blob orrorifico del primo capitolo in un monolite elettronico quasi del tutto privo di chitarre. Non è un vezzo dettato dalle mode del momento: ad incanutire terribilmente gli ascolti pregressi erano, in particolare misura, quelle sventagliate tamarre tra AOR, hard rock arena e glam metal di rottura, perfette come collante fumettistico di un, mettiamo, Big Trouble in Little China, ma alquanto fuori luogo in qualsiasi altro contesto. Solo la coda à la Scorpions di “Dark Blues” (coinvolgente, per quanto tracimante di una naiveté che sa farsi davvero esilarante) e il rifferama macho in libera uscita dall’incorporeo ambient di “Real Xeno” conservano un qualche tenue legame col recente passato: le sei corde appaiono ancora, ma in veste acustica, come sul declinare etnico di “Angel’s Asylum” (puntellata di un’elettricità ben camuffata dietro una scorza sintetica assai appariscente) o, più generalmente, in un continuum sonoro che non le vede mai protagoniste. Proprio qui sta il busillis di una transizione, forse, troppo brusca, che non riesce a valorizzare nell’immediato la poderosa spinta della synth-wave di “Distant Dreams” o le dissolvenze vaporose di “Bela Lugosi”.

Cercando appigli affidabili ai quali aggrapparsi nell’ascolto, si scoprono i nuovi, innegabili vantaggi di questa formula: l’essenzialità porta ad un più stretto monitoraggio del meccanismo melodico, il che, sostanzialmente, si traduce in una più fluida comunicazione armonica – se di interplay, in casi limite come questo, è lecito parlare. Escludendo l’epica da due soldi di “Utopian Facade” (con contrafforte in archi sintetici che puzzano da serie televisiva tardoottantiana lontano un miglio), sono le malinconiche evocazioni spettrali di “Last Sunrise” (come un Badalamenti prestato alla strobosfera), il toccante broken circle di “Hofner Dawn” e il sottile carillon di “White Pulse” (squarciata da una drum machine che suggerisce un plot twist mica da ridere…) a contribuire alla causa, definitivamente consacrata dal tango dinoccolato di “Persia Rising”.

Anche i sillogismi, fortunatamente, possono fallire. Questa volta non occorre neppure immaginare pellicole fittizie da abbinare alle musiche: “Lost Themes II” è un album perfettamente longevo ed autosufficiente. Possiamo solo immaginare quanto si diverta Carpenter

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 1 voto.
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