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R Recensione

6/10

Ok Go

Hungry Ghosts

Al 2010, gli Ok Go erano una delle band emergenti più quotate ed apprezzate di quello che, fino a qualche anno fa, si poteva ancora ragionevolmente definire power rock: musicalmente una poco più che discreta sintesi trasversale tra Buzzcocks, Weezer e primi Franz Ferdinand, mediaticamente un concentrato di personalità davvero creative, costantemente in grado di spostare l’attenzione del pubblico generalista dal contenuto al contenitore (nostalgia a palate nel rivedere i geniali screenshot di “A Million Ways” e la sua estetica virale, pauperistica, tremendamente efficace). Venne allora “Of The Blue Colour Of The Sky”, terzo full length che li avrebbe potuti proiettare nell’olimpo del mainstream: giunti all’incrocio, invece, i quattro di Chicago decisero incomprensibilmente di riscrivere un percorso già ottimamente avviato, snaturandosi con la scrittura di un aborto elettronico d’alte ambizioni, ma d’infimo livello (senza contare, peraltro, il prevedibile suicidio commerciale). Da allora poco, o niente: un cospicuo numero di concerti oltreoceano, una visibilità andata assottigliandosi nel Vecchio Continente, un permanente hiatus discografico.

Hungry Ghosts” dilacera la cortina di silenzio calata da tempo sulla band e lo fa in maniera talmente esuberante e kitsch da sembrare, per molti aspetti, provocatoria. Archiviata per sempre la fase chitarristica, la band procede nella propria digitalizzazione a tappe forzate: quanto suonava grottesco ed innaturale nel capitolo precedente, probabilmente troppo prematuro sui tempi, acquista qui una più profonda e compiuta prospettiva. Se la coerenza è tutto, gli Ok Go di oggi non possono essere altro che quelli di “The Writing’s On The Wall”: fedeli alla propria identità virtuale, all’immagine ispirata dall’esterno (il video ufficiale, realizzato giocando sull’impatto psicologico dei trucchi ottici, è probabilmente il più esilarante e bello che abbiano mai girato), ma al contempo determinati a proseguire sulla propria strada: e poco importa se, per impostazione vocale e retro futurismo tastieristico, sia la stessa degli Spandau Ballet.

Sì, ma… le canzoni? Diversamente dalla caporetto di “Of The Blue Colour Of The Sky”, la situazione non è altrettanto tragica. Ve ne sono alcune di veramente belle, come la soffusa ballata beatlesiana conclusiva, “Lullaby”, o la pacchianissima “Bright As Your Eyes”, avvolta in un corredo di archi sintetici che farebbero impallidire gli Electric Light Orchestra (i medesimi che trasformano “I Won’t Let You Down” in un colorato inno disco per il nuovo millennio, un brano in minore degli ultimi Daft Punk): altre di inascoltabili, come il martello synth rock di “Upside Down & Inside Out” (schizofrenico e demenziale quello sdoppiamento di voci!), il Prince slavato di “If I Had A Mountain” e l’epopea arena rock FM di “The One Moment”. Più in generale, però, prevale un senso di diffusa mediocrità: colpa, ancora una volta, di una produzione sovraccarica, che centuplica i suoni e complica inutilmente gli arrangiamenti (esemplari le frizoni noise della scialba “The Great Fire”), quando invece maggiore asciuttezza avrebbe grandemente giovato. Salta così fuori che “Another Set Of Issues” sia una potenziale hit, resa in realtà invendibile dal delirio di backing tracks nel refrain, e “Turn Up The Radio” un ibrido fesso da un modesto assolo Cars-oriented: cosa più grave, tali arabeschi non migliorano sensibilmente la qualità di pezzi che sono, e rimangono, del tutto canonici.

Sei politico, di stima, non fosse altro per la capacità di rigenerarsi dopo un tragico tonfo.

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