Cat Power
Jukebox
L’irregolare, la gatta randagia s’è finalmente accasata, diranno alcuni, ha rinfoderato le unghie per non rovinare la moquette ed ora fa le fusa nel suo elegante appartamento al centro di Manhattan. Si, si, faranno eco altri, ha infilato la strada larga e comoda, quella che porta dritta al ludibrio e alla dannazione (così è scritto nel “malleus maleficarum” del “critichino”), come Nick Cave, come il Boss, come Dylan prima di lui, come PJ e Sinead, come Alanis ed Amy Winehouse. Ma importa poi a qualcuno di quello che diranno questi qui? Non so a voi, a me no di sicuro.
Di fatto Jukebox sta a The Greatest come The covers record stava a Moonpix. Si, è vero, Cat è cambiata, anzi è cresciuta, con tutto il bagaglio di invitabili conseguenze e fragili equilibri che ogni nuova stagione porta con se sul piano artistico e personale. La differenza è tutta qui: se ai tempi di The covers la giovane guascona della Georgia trapiantata a New York bruciava dalla voglia di sfidare a duello la storia del rock “ufficiale”, decapitando (i can’t get no) Satisfaction del suo inciso populista/generazionale da baby boomers e consumando la “Vendetta” di V. al ritmo di I found a reason, ora Chan Marshall è una ragazza adulta e sicura di se che si lascia guidare dalle buone vibrazioni della memoria e, più che graffi e boccacce, qui distribuisce umili omaggi e calorose strette di mano alle donne (ma anche agli uomini) che l’hanno aiutata a maturare e ad osservare la vita da un’altra prospettiva. D’accordo che i pezzi suonano tersi, smussati, rotondi (si sente la mano di Stuart Sikes, produttore country-pop di lusso, vincitore di un Grammy), concepiti apposta per mettere a suo agio l’ascoltatore, come un vecchio mobilio di famiglia in una casa di campagna diroccata, ma la sua voce, quella è sempre la stessa.
Lo si capisce già dall’incipit di New York dove la grandeur Scorsesiana/Minelliana (padre e figlia) s’infrange contro uno shuffle che ha l’umore e l’andatura d’un clochard claudicante. E poi quello sbadiglio da Cat nel ritornello (“Niu-uu-uu Yo-oo-ork”, quasi uno jodel)! Roba che a Sinatra gli viene voglia di morire un’altra volta (oppure no, magari le sue giovani labbra impudenti e screpolate, balsamiche di J&B e Benson Blue, gli ricordano troppo quelle di Ava). E di seguito squaderna un paio di spartiti dal libro mastro di quel country-blues che fa dell’America una sola, palpitante cosa, dagli Appalachi alla Sierra Nevada: Ramblin’ (Wo)man di Hank Williams (già ripresa dalla coppia Isobel Campbell-Mark Lanegan) che qui diventa una specie di carezzevole ambient-soul e Silver Stallion (degli Highwayman, supergruppo composto anche da Johnny Cash e Willie Nelson, in patria un’istituzione, qua degli sconosciuti, un po’ come se, a ruoli invertiti, noi cercassimo di imporgli una tournee della Mannoia, con De Gregori, Ron e Pino Daniele). Si butta quindi sulle piste di Aretha, chiede uno strappo a George Jackson (Aretha, sing one for me) ma rintraccia solo un James Brown minore (Lost someone) con quella voce che scroscia come una cascata di nettare sul letto riarso della sua gola. Rivitalizza il Dylan neo-convertito di I believe in you (con un arrangiamento da Memphis blues, caldo e massiccio come le rocce del Canyon d’estate) e poi gi dedica addirittura una torch-song scritta di suo pugno (Song for bobby), fresca e delicata come una coppa di frutti rubini. Infine aggiunge il suo ritaglio (Metal Heart, tratta da Moonpix) al fine ordito che cuce la trapunta adagiata nel tempo dalle sue antiche compagne e sorelle maggiori: Jessie Mae Hemphill nel traditional Lord help the poor and the needy, Billie Holiday, Don’t explain (meravigliosa, ad un certo punto, quella sua afasia onomatopeica “cha-cha-cha-shhh”), la Janis Joplin di A woman left lonely (come se avesse finalmente abbandonato la sua stanza disfatta al Chelsea Hotel e si fosse ricostruita una vita da qualche parte) e quella Joni Mitchell a cui è stata tante volte paragonata, nebulizzata in puro gospel con Blue.
Un album di cover concettuali che brilla tenue come al tramonto la superficie d’un lago ghiacciato. Una sfera di cristallo che riconcilia con il passato (altrui) mettendolo in comunicazione con il futuro (vissuto in prima persona).
A.A.A.: Ah, Adorabile Aristogatta!
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