R Recensione

6/10

Miami Horror

All Possible Futures

Noto, ultimamente, la tendenza a stroppiare, anche in musica. E dire che è strano: nell’era del download e della propensione ad ascoltare singoli brani più che dischi interi, dovrebbe essere disincentivata la pubblicazione di album monstre. E invece, per opposizione, forse per provocazione, o forse per mancanza di lucidità, o forse ancora per mimesi verso il mondo là fuori, in cui tutto si ammucchia e più nulla si distingue, escono sempre più dischi interminabili, in cui al buono è fatalmente intrecciato il meno buono. Il titolo del secondo disco dei Miami Horror lo dice chiaramente: All Possible Futures. In 15 pezzi, è contenuto tutto ciò che la band synth pop australiana, chiamata a dare seguito al notevole “Illumination”, che li aveva un po’ consacrati come i fratelli dei Cut Copy, poteva dire. Ed è, per l’appunto, troppo.

Peccato, perché l’album parte bene, tra l’electro ancora post-chillwave di “American Dream”, la dance diritta di “Real Slow” e i tratteggi ’80 funkeggianti di “Love Like Mine”. Rispetto all’esordio, la band cancella totalmente le battute più malinconiche (ma lì, davvero, contava molto la wave glo-fi, anche se non a caso era Neon Indian, tra tutti i glo-fiers certamente il più colorato, a collaborare al disco), sicché sembra di sentire un album dei Pet Shop Boys più happy vibes aggiornato al 2015, con una produzione cristallina e iper-patinata. A dare varietà sono le voci, per le quali vengono chiamati in causa diversi interpreti, mentre le soluzioni sonore e compositive tendono a uniformarsi, tra piani bounce  e cori femminili, tastiere bombastiche e bassi groovosi dove abbisogna, al punto da dare l’impressione di passare senza soluzione di continuità da un pezzo all’altro (“Cellophane”, “All It Ever Was”, “Out of Sight”).

Pezzi azzeccati ce ne sono (“Wild Motion”, “Stranger”), mentre i riempitivi strumentali potevano comodamente essere tolti assieme a qualche brano di troppo, tanto più che, a livello strutturale, i Miami Horror confermano di avere bisogno dell’intero pacchetto pop (strofa, bridge, ritornello, tutti con le dovute ripetizioni) per mostrarsi in tutta la propria gloria. Ne esce un disco lambiccato al massimo e piuttosto fighetto, tra paesaggi di L.A. baciati dal sole e Bee Gees ripescati senza ironia (“Another Rise, Another Fall”). Spezzato in due, “All Possible Futures” si fa ascoltare, anche se la seconda metà non regge assolutamente il paragone con la prima. E certamente in pista ha l’aria di funzionare, almeno a tratti. Però al molto mestiere, stavolta, sembrano combinarsi poca originalità e poco cuore.

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