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R Recensione

7/10

Lily Allen

Sheezus

Si è fatto un gran parlare circa l’ultima fatica dell’inglesina più impertinente del mainstream: rancorosa e polemica, la ventinovenne Lily Allen ritorna sulle scene a cinque anni di distanza dal precedente (e delizioso) It’s Not Me, it’s You, prendendosela un po’ con tutti, colleghi/e (già l’iconico titolo, sberleffo ai danni di mr. Kanye Ego West, è programmatico), addetti ai lavori nel music business, opinion maker internettiani da strapazzo, e chi più ne ha, più ne metta. Per una volta la cantante sembra invece non divertirsi a sfottere uomini incapaci, sotto ogni punto di vista (come dimenticarsi dell’insoddisfacente amante dileggiato in Not Fair?). Al contrario, i tutt’altro che rari momenti di felicità offertici da Sheezus riguardano proprio il suo aver trovato la persona giusta, in grado di farle dimenticare le mediocrità della daily routine, che può essere piena di noia ed insoddisfazione anche per chi, di mestiere, fa la pop star. 

E’ proprio questa dicotomia tra la gioia più irrazionale dell’amore e gli strali polemici verso il mondo esterno che caratterizza Sheezus, ma molte analisi, tra cui spicca il logorroico pippone di Pitchfork (meno onanismi, ragazzi, è un album di pop music, su!), si sono soffermate più che altro sulle contraddizioni e sul presunto cortocircuito filosofico di un’artista che vuole farsi incoronare regina di un mondo che pare disprezzare. Personalmente, tutti questi discorsi mi interessano relativamente, anche perché, in fin dei conti, nel computo dell’album investono soltanto due-tre canzoni (due delle quali, la title track e Hard Out Here, scelte furbescamente come singoli di lancio) e comunque mi sembra risibile pretendere coerenza ferrea come ormai manco la si richiede ad un partito politico da una cantante che ha sempre fatto dello scherno ironico e disimpegnato, più che dell’invettiva feroce, la sua arma di forza. Scherno che la Allen non manca di riversare anche verso se stessa, quando dice che la sua creazione suona di merda perché altrimenti non me la passerebbero alla radio o che è un album che ho scritto solo per potermi permettere di realizzare un altro in futuro, dimostrandosi (per eccesso di falsa modestia?) un po’ ingenerosa verso le proprie canzoni, invero tra le migliori che il panorama easy listening abbia da offrire, ancora oggi, 8 anni dopo il suo ingresso sulle scene. Infatti, non trovandomi persuaso dalla teoria sempre più comunemente sostenuta da più parti, che vedrebbe il mainstream come nuovo El Dorado delle avanguardie artistiche (ma poi, voglio dire, ci sono sempre stati artisti sulla cresta dell’onda che hanno battuto per primi sentieri inesplorati, si veda il Duca Bianco come esempio lampante, non è che si stia assistendo a nessuna rivoluzione, sotto questo punto di vista), ritengo che in un album pop, quale è il nostro Sheezus, la cosa più importante da valutare sia la riuscita delle canzoni contenute e la loro capacità di sintetizzare al meglio gli stimoli musicali e culturali presenti nella realtà circostante, tramite la creazione di melodie efficaci e ficcanti. E, in almeno sei-sette episodi sui dodici presenti, Lily, coadiuvata dal bravo produttore e co-autore Greg Kurstin, suo storico collaboratore e dietro la consolle per una moltitudine molto variegata di personaggi (nel suo curriculum si trova sia Kylie Monogue che i The Shins), riesce perfettamente nell’intento. 

Come da scuola british, Sheezus si muove attraverso le più svariate influenze, senza perseguire una direzione stilistica univoca: così, capita di trovare nella stessa tracklist il rap vagamente grime della traccia di apertura (al netto della cattiveria lirica, un po’ fiacca), l’elettro country As Long As I Get You (bel ritornello, ma è evidente il tentativo di ripetere la già menzionata e ben più fortunata nei risultati Not Fair), il languido soul r’n’b di Insincerely Yours o la contagiosa filastrocca hip-hop Air Balloon. Non troppo dotata dal punto di vista vocale, la Allen ha sempre saputo sfruttare al massimo la sua vocina da star per teenager, mettendola al servizio dei pezzi che si trova a cantare, senza mai cercare di strafare e risultando in tal modo pacchiana (leggasi alla voce Katy Perry); in questa maniera anche le ballate più zuccherose, quali Take My Place, la souleggiante Close Your Eyes e Life For Me non diventano stucchevoli, ma semplicemente graziose (in particolare l’ultima, con il suo piglio caraibico, è davvero irresistibile). Gli episodi più riusciti sono il singolo-bomba di lancio, datato Novembre 2013, Hard Out Here, Our Time e la sorprendente URL Badman. La prima, che si potrebbe definire synth hip hop (và che ti invento pure un nuovo genere!), è dotata di un flow cadenzatissimo nelle strofe, che presentano per altro degli ottimi arrangiamenti vocali e tastierstici, di un ritornello che ti si appiccica in testa e non si leva più (unica pecca l’autotune smaccatamente radiofonico) e di un testo che è una velenosa pernacchia femminista ai danni dell’establishment musicale e manageriale in toto, ancora nettamente fallocentrico, in anno domini 2014. Our Time, invece, è un vero e proprio inno al carpe diem moderno, fatto di vacue, ma anche molto divertenti, sbronze del sabato sera, diluite a suon di hip hop targato Def Jam, dubstep e una mai sopita speranza per un futuro che sia meno alienante ed insoddisfacente dell’ hic et nunc. Infine URL Badman (per chi scrive la migliore del lotto) si rivela essere un puzzle di stili piuttosto ardito: parte con un’atmosfera trasognata, quasi dream pop; un tenue piano molto riverberato fa da sfondo alla sarcastica autocelebrazione di un trollino da quattro soldi, uno dei troppi che quotidianamente infestano il web al solo scopo di provocare e far valere una parvenza di virilità altrimenti negatagli nella vita reale, evocata nel testo. Quindi, un incalzante middle eight anticipa la melodia vocale del ritornello, che esplode, in tamarrissimi, ma dannatamente trascinanti, drop brostep. La pollastrella londinese che insegna ai giovani divi dello scenario elettronico mondiale, quali Skrillex o Glitch Mob, come ci si muove nei loro stessi campi da gioco. Ogni tanto anche il mainstream può riservare bellissime sorprese, no?

Insomma, questo bizzarro pout pourri di pop contemporaneo non presenterà magari le visionarie intuizioni in bilico tra misticismo induista e trash suburbano di un Matangi di M.I.A. (da cui trae peraltro linfa creativa in più di un’occasione) e probabilmente rappresenta un passettino indietro rispetto alle influenze urban raggae dell’esordio Alright, Still e al seguito pieno di singoli splendidi quali The Fear o 22, ma per capacità di scrittura, intelligenza e cura sonora (veramente, è davvero difficile trovare in questo album e maggior ragione nei precedenti una sonora caduta di stile), nessun’altra diva in questo momento merita lo scettro di regina dell’hit parade, più della rancorosa e polemica Lily. D’altro canto, le regine più famose sono sempre state in Inghilterra. A Londra, precisamente.

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