Adele
21
Chi più, chi meno, chi pochissimo, chi troppo, tutti noi siamo stati complici del fenomeno pop dell'anno: i "21" anni di Adele (ormai 22) sono passati un po' ovunque, dalle piscine condominiali alle frequenze di qualsiasi radio, dai videogiochi sportivi alle spiagge sabbiosissime, dall'ugola stonata di amici euforici ai remix di Jamie XX, Deathstar (e tanti altri), ai film, alle camere materne, ai sospettosi miagolii del gatto. Sì, c'è da ammetterlo, a molti di noi è anche capitato di canticchiarne le canzoni contagiati da tanto successo o semplicemente intossicati allo sfinimento dalla ripetizione dell'ascolto. Non c'è nulla di male perché "21" è un album fatto bene, molto più curato di "19" negli arrangiamenti e maturo nella resa melodica, piacevole ritratto di un easy listening in overdose d'ispirazione, e intelligente come pochi altri. E poi c'è la voce di Adele, semplicemente perfetta nelle escursioni tonali, e bellissima nelle note scure, quando le corde scendono sotto parecchie ottave.
Il consumo di potenziali hit poi consacrate è sempre dietro l'angolo, con una "Rolling In The Deep" che apre l'album coi fuochi d'artificio: a pochi accordi nudi di chitarra in apertura rispondono tom e grancassa per un incedere marziale, sostenuto poi dall'handclapping, che riflettono sul piedistallo la voce di Adele mentre sale e scende in sovrapposizione a un coretto gospel; la stessa base para-militaresca che trova spazio in una "Rumour Has It" squarciata in due dal pianoforte, prima marcetta di battiti secchissimi, poi quieto raccoglimento vocale della nostra. E questa alternanza è lo specchio perfetto di "21", tutto un passaggio d'intenti tra momenti frenetici e altri più intimi: per i secondi come non tirare in lento ballo il cantautorato pop di "Don't You Remember", di una semplicità quasi imbarazzante per composizione, eppure tra le prove vocali più convincenti dell'inglese (splendido lo stacco vibrante del ritornello), così come il soul raccolto di "He Won't Go", frantumato nel movimento da pianoforte e percussioni. Rimbalziamo così da un singolo all'altro, dall'epos in crescendo di violini e voce lacerante ("Set Fire To The Rain") al capolavoro cantato del disco, in cui Adele spreme ogni corda alla perfezione, lima col metallo i toni alti e col fuoco quelli bassi, e sprigiona una carica magnetica incredibile con quel suo accento londinese ("Someone Like One"), passando anche attraverso piacevoli flessioni acustiche ("Hiding My Heart" e una "Lovesong" presa in prestito dalla Sade più sensuale).
C'è poi una questione 'epica' tutta da risolvere: quando Adele sveste i panni da cantautrice e si fa cassa di risonanza delle esplosioni orchestrali ("Turning Tables", "One And Only", la stessa "Set Fire To The Rain") perde forse qualcosa per strada, forzando esteticamente troppo la voce (e sì, l'autotune in alcuni pezzi non ha senso d'esistere) e gonfiando troppo di sfarzo certe discrete linee melodiche. A stufare un po', inoltre, è la tematica unicamente amorosa dei testi (una giostra infinita di ripensamenti, prese di posizione, depressioni e tradimenti di gossip), qualche momento di ripetizione compositiva ("I'll Be Waiting") e qualche altro semplicemente più stanco e meno convinto ("If It Hadn't Been For Love"). Un album comunque pieno di (buone) idee, eccessivamente epico per alcuni, gioia mainstream per altri. Ma tra la croce e la delizia rimane una certezza: quello di Adele è un talento purissimo da tenere d'occhio; arrivederci per i "24" o i "27".
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