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R Recensione

8/10

Ayumi Hamasaki

Rainbow

Non si sfugge da Ayumi Hamasaki. Per dirla in maniera meno perentoria, non si sfugge da Ayumi Hamasaki, qualora si abbia la voglia e l'intenzione di intraprendere un percorso serio e ragionato dei molteplici volti del pop giapponese degli ultimi venti anni, mutaforma cannibale che a livello mainstream ha dato vita a molte delle sue manifestazioni più significative. Tra di esse, la Hamasaki assume una posizione che dire di rilievo è dire poco. Già me li immagino, gli sguardi perplessi e le fronti corrugate: piaccia o meno, l'impatto e l'influenza che la minuta cantante/cantautrice di Fukuoka ha esercitato su un intero stuolo di starlette e aspiranti popstar del Sol Levante è innegabile e, a suo modo, sorprendente, ancor più se si considera l'impietoso ricambio di volti e voci che da sempre è croce e delizia del sistema musicale nipponico.

E dire che le premesse parevano presagire tutt'altro destino, per la Nostra. Passando da un'infanzia difficile a fianco di una madre abbandonata dal marito e una nonna che praticamente la alleva da sola, a un trasferimento nella capitale a soli quattordici anni per aiutare la famiglia, per finire a lavoretti di second'ordine nel mondo dello spettacolo che non fanno altro che aumentare la sua insoddisfazione (ruoli in B-movies di scarsissimo successo, un fallimentare quanto insignificante EP rap, “Nothing To Nothing”, adesso motivo di spasmodiche ricerche e conti in banca svuotati da parte dei fan più accaniti) e una carriera accademica praticamente troncata sul nascere. Insomma, niente che non lasciasse intravedere un epilogo tutt'altro che edificante a tutta la storia. Ma in fondo, se siamo qui a parlarne, il lieto fine, come nella più classica delle commediole americane, è arrivato: la differenza è che ce ne ricordiamo ancora a sedici anni di distanza.

E' nel 1997, durante una delle frequenti capatine della Hamasaki al Velfarre, discoteca al tempo tra le più note dell'intero Giappone e gestita dalla avex trax (la più grande label discografica d'Oriente, al tempo capace di introiti record grazie al debutto da quattro milioni di copie dei globe e al sophomore da due milioni di una star quale Namie Amuro), che le viene presentato Max Matsuura, produttore sulla cresta dell'onda in cerca di nuovi talenti a cui prestare i suoi servigi. L'incontro è fatale: nonostante una prima ritrosia, l'intesa diventa vincente in breve tempo, e dopo qualche mese speso in lezioni di canto, tutto è pronto per il debutto. Un debutto che al di là dei singoli un po' tentennanti, fa letteralmente il botto: “A Song for xx” nel 1999 pone infatti all'attenzione del pubblico giapponese una lyricist formidabile, una penna acuta e penetrante che sotto la scusa della dedica al padre mai conosciuto racconta lo sconforto, la solitudine e le angosce di una generazione intera. Certo, musicalmente parlando il prodotto era tutt'altro che maturo e personale, figlio di quel pop tra elettronica di stampo euro e rock appena accennato che in quegli anni imperversava per ogni dove. La voce poi, ancora tradiva un'inesperienza e un'inefficacia espressiva che solo col tempo sarebbero state contenute, finanche arginate. La forza di quelle parole consentì però al progetto di riscuotere un successo insperato, che si consolidò di uscita in uscita (tre album nell'arco di due anni) cementando lo status della Hamasaki da aspirante diva a superstar capace di tour faraonici, tutti rigorosamente sold-out.

Bisogna aspettare però il 2002, affinché il progetto acquisti una fisionomia musicale sua propria, affinché lo scarto di sensibilità da estetiche e influenze varie diventi realmente apprezzabile. E un po' come la Kylie Minogue di “Impossible Princess”, la trasformazione si concretizza col coinvolgimento in prima persona della titolare in tutto il processo di registrazione e produzione del disco (tanto da adottare il nom-de-plume Crea per le musiche a sua firma). Stanca di essere etichettata come il prodotto di punta della avex (l'uscita del suo primo best in concomitanza con “Distance” di Hikaru Utada, l'altra regina di vendite del periodo, non fu mai accettata dalla Hamasaki, che vide così crearsi dal nulla una rivalità tra “dive” progettata ad arte dalle rispettive case discografiche), e desiderosa di maggiore controllo sulla propria carriera, con “I am...” (ad oggi, il disco più personale della songstress e quello più amato dai fan), ma soprattutto con “RAINBOW” uscito undici mesi dopo, la sterzata rispetto a quanto li ha preceduti è più che evidente.

Ed è in particolare quest'ultimo a rappresentare la cesura più netta, lo spartiacque che darà poi il via alla fase matura nel curriculum della Nostra: se del suo illustre predecessore adotta la grandeur stilistica, l'autosufficienza creativa e la ricchezza nei timbri, quest'arcobaleno, piuttosto che sancire la fine della tempesta, sembra esserne suo intimo complice, travolgendo col bagliore dei colori ogni cosa al suo passaggio. Tutto in fondo qui è questione di colore: dai frizzanti cambi di ritmo e intensità, alle nuove sfumature ottenute da una voce mai così sicura e self-confident, al rigoglio degli arrangiamenti, perfettamente inseriti in maglie melodiche di ampio respiro, è la varietà, la policromia delle soluzioni sfoggiate a colpire sin da subito, nell'arco di un'ora che sbandiera tutte le potenzialità di cui il j-pop si stava rivelando padrone.

Di fatto, anche a cercarla attentamente, una tendenza generale che accomuni anche una fetta dei brani non la si riesce a trovare. La compattezza, che comunque è stata garantita, va trovata altrove. Magari in quella voce, bambina e arrogante al tempo stesso (a molti parrà semplicemente fastidiosa), romantica ma capace di slanci d'impeto inattesi, signora di un fraseggio totalmente suo, che non si riscontra nemmeno tra molte delle connazionali, solitamente tendenti all'isterico spinto. Magari pure nel mood, introspettivo e sottilmente drammatico, che di rado lascia spazio ad accordi in maggiore e a squarci di brio compositivo. Ogni altra pretesa di omogeneità termina qui.

Si viene pertanto sballottati, senza particolare soluzione di continuità, tra i richiami urban di “Real Me” (tra i pochissimi “esperimenti” nel genere, per altro quasi sempre riusciti, da parte della Hamasaki), micro-sinfonie di rock orchestrale (“Heartplace”), caramelle punk-pop che smorzano la malinconia generale con la semplice forza della loro esuberanza (“July 1st”, ma soprattutto la conclusiva “Independent+”, cavalcata chitarristica che spazza via il 90% del pop-rock annacquato made in Japan). E non è tutto.

Non lo è, perché anche quando vengono predilette strade più affini, più in linea coi trascorsi della sua carriera, l'asticella è notevolmente puntata verso l'alto, forse fin dove nemmeno i pochi vertici raggiunti fino a quel punto avevano osato spingersi. La scrittura, decisamente più matura che in passato, affronta così lo scibile j-pop del precedente lustro (scibile che ha contribuito lei stessa a edificare) con rinnovato slancio e personalità. La rincorsa a perdifiato di “WE WISH” prende il techno-rock di casa Tetsuya Komuro e ne perfeziona le intuizioni, architettando su di esso una trama emotiva di vibrante intensità e struggente dinamismo. Analogamente, sono i saliscendi di colore che si percepiscono nei brani più lenti quali “Voyage” (tra i singoli capolavoro della cantante, anche grazie all'arioso utilizzo dell'orchestra) o “Over” (con quei tocchi secchi di tastiera che a breve diventeranno un suo marchio di fabbrica) a trasformare ballate tutto sommato ordinarie, per quanto ben eseguite, in capitoletti dall'innegabile afflato epico, capaci di sublimare rabbia, dolore e quant'altro in un impressionante gioco d'incastri.

Punta di diamante dell'intero lavoro, “Free & Easy” riassume e al contempo estremizza le diverse tensioni che lo contraddistinguono, condensandone umori e sensazioni in una delle composizioni più ardite e sfrontate dell'epoca. E a pensare che un brano del genere, contro ogni logica di mercato, finì per presentare il disco al pubblico nipponico, ancora abituato all'assetto da power-ballad del precedente lavoro, l'impressione che sia davvero passata un'epoca (nonostante i soli undici anni che ci separano) è forte. Ma erano davvero altri tempi, tempi in cui (detto senza particolari rimpianti nostalgici) ci si poteva permettere di piazzare con successo canzoni in cui il primo ritornello attacca a due minuti e mezzo circa dall'inizio, in cui tastiere dal fascino gotico si succedono a leggiadre arie di zufoli orientali, supportate infine da una ricchezza in fase di scrittura che si concede strofe, pre-chorus e stacchi strumentali in abbondanza per sorreggere un impianto che non si sbaglierebbe a definire progressive, a tutti gli effetti. Soltanto l'inventiva a briglia sciolta di Ringo Shiina ha saputo andare oltre, marcare con un'impronta ancora più decisa l'avvenuto sposalizio tra l'indole fagocitante del j-pop, bramoso di contaminarsi con qualsiasi genere gli capitasse sotto tiro (si pensi che nello stesso anno escono “Deep River” della Utada e “Kiss in the sky” di MISIA, il vero testamento dell'urban-pop nipponico), e le mutazioni del prog-rock. Ma questa, a tutti gli effetti, è un'altra storia.

Non sarà l'unico exploit della Hamasaki. Perlomeno fino al 2008, la Nostra continuerà a tenere salde le redini del suo destriero con dischi di notevole spessore, affidandosi sempre più a collaboratori esterni per le musiche e gli arrangiamenti, senza rinunciare al proprio spirito avventuroso, che la porterà a confrontarsi finanche con l'hard-rock, il soul e le frange più bizzarre del pop (specialmente nell'altra sua grande fatica a titolo “(miss)understood)”. Best-of dei primi singoli a parte, è comunque anche e soprattutto merito di questa collezione qui, se alla fine le quotazioni artistiche della sua titolare hanno lievitato in maniera così esponenziale. Pregiudizi a parte, “RAINBOW” resta tuttora uno dei più fulgidi esempi di quanta creatività abbiano avuto (e continuino, a sprazzi, ad avere) i linguaggi popolari della musica giapponese.

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loson (ha votato 7 questo disco) alle 22:03 del 16 luglio 2013 ha scritto:

Lei mi piace meno della Utada, ma la recensione è davvero strepitosa. Super Vas!

Cas alle 14:01 del 17 luglio 2013 ha scritto:

ma -la butto lì- un articolo a quattro mani (intendo le vostre, chiaramente) per presentare la scena j-pop a noialtri, no?

bella recensione, davvero, complimenti!

zefis, autore, alle 14:44 del 17 luglio 2013 ha scritto:

Beh, in realtà tutto il cappello introduttivo alla recensione di Hikaru Utada (buttata giù a quattro mani proprio con Los, il quale non smetterò di ringraziare per avermi convinto ad imbarcarmi in questa piccola avventura) era stato scritto proprio a questo scopo. Poi si potrebbe pensare a qualcosa di ancor più ampio respiro, questo non lo nego, e infatti qualcosa bolle in pentola. Se ne riparla nei prossimi mesi, ad ogni modo.

zefis, autore, alle 14:46 del 17 luglio 2013 ha scritto:

Grazie per i complimenti, ad ogni modo.

FrancescoB alle 17:17 del 19 luglio 2013 ha scritto:

Della scena e dell'artista conosco meno di niente, ma il pezzo merita e credo che sia giunta l'ora di colmare la lacuna, tempo permettendo.

Ivor the engine driver alle 16:11 del 29 luglio 2013 ha scritto:

Ho avuto il (dis)piacere di inciampare nelle sue canzoni sia nel '99 che nel 2004 quando vivevo a Tokyo. Ingenuamente non mi preoccupavo, pensando che se mi fossi trasferito da un'altra parte non avrei più avuto coscienza del j-pop tutto. E invece purtroppo internet m'ha fatto lo scherzetto e da un po' di anni ho scoperto che si sta diffondendo anche qua. Degustibus ragazzi, ma ho sempre pensato che il panorama musicale giapponese sia talmente vasto e (abbastanza) interessante da non capire perchè ascoltare questa qua o la Utada (un altro incubo)quando c'è un mondo di roba più interessante. Vabbè adesso vi incazzerete, ma ne parlo con un minimo di cognizione di causa, avevo ed ho ancora amici nel music biz a Tokyo (uno lavorava alla Avex che citi intorno al 2000), non sto dicendo che fa cagare a priori, purtroppo al lavorto mi capitava di sentire sia la Hamasaki che il j-pop, soprattutto quello terribile r'n'b style e mi viene ancora l'orticaria a pensarci

loson (ha votato 7 questo disco) alle 22:35 del 29 luglio 2013 ha scritto:

Sì, il panorama giapponese è vasto e (molto) interessante. Mi sono avvicinato ad esso, in tutta pigrizia, a partire dal 2005, ovviamente partendo con le manifestazioni di quella musica più "su misura" per il pubblico rock occidentale mediamente colto, siano esse noise o improv o quel poco di japrock che riuscivo a rintracciare (vedasi la mia recensione dei Taj Mahal Travelers del 2007 qui su SdM). Poi il libro di Cope mi ha aperto un mondo - come penso abbia fatto a tanti altri - e al tempo stesso ne ha esclusi tanti altri, proprio perchè il libro si chiude cocciutamente a riccio sulla decade '70s (negando il valore, ad esempio, di quanto ha dato il Giappone in campo post-punk o visual kei), precludendosi altresì ogni prodotto puramente pop di quella cultura, il quale veniva messa al bando. Il j-pop dei '90s o dei '00s, almeno a parer mio e dell'amico Vassilios (al quale devo molto perchè è grazie a lui se me ne sono interessato), è un campo d'indagine dinamico e stimolante nel quale, come in ogni altro genere o calderone o scena musicale, è possibile rintracciare artisti di grande valore (una come Shiina Ringo ha pochi rivali - dovunque, anche in Occidente - in fatto di trasversalità, complessità della proposta, attitudine arty) e artisti mediocri quando non inconsistenti. L'analisi - ancorché parziale e limitata ai nostri mezzi d'indagine - di questo mondo, oltre che portatrice di un suo valore intrinseco, può essere un punto di partenza per qualcosa di ancora più vasto, tempo (il nostro) e salute mentale (la mia) permettendo. Mi piacerebbe focalizzarmi sul filone new wave/post-punk del Sol Levante, anche perchè band di valore assoluto come INU, Jagatara, Lizard o P-Model da noi sono virtualmente sconosciute. C'è l'esordio di Aiko Yano del '76 che è uno dei più clamorosi e sconvolgenti "crash" fra cultura orientale e occidentale dei quali le mie orecchie siano state testimoni. E tante altre sarebbero le cose da fare e scrivere e cercare di "capire", ma putroppo le cose non vanno sempre come uno se le aspetta...

loson (ha votato 7 questo disco) alle 23:47 del 29 luglio 2013 ha scritto:

Ah, fermo restando che l'autore della recensione è proprio Vassilios e che quindi una risposta più articolata e pertinente sulla questione può dartela solo lui. Non intendevo in alcun modo sostiturmi a lui...

Ivor the engine driver alle 9:57 del 30 luglio 2013 ha scritto:

Il libro di Cope non l'ho voluto comprare, ma l'ho leggiucchiato, sinceramente ricordo un introduzione storico sociologica abbastanza brutta, ma purtroppo avevo aspettative "alte" (nello specifico l'unica cosa in italiano valida sulla musica giappo rimane Sol Mutante di Valtorta/Gomarasca, quello sì mi aprì un mondo nel 95). Inoltre molti dei gruppi che promuoveva a spada tratta mi lasciano tuttora abbastanza indifferente. O meglio, quando leggo lodi sperticate per gruppi deliranti nipponici dei 60/70 o Turchi o Iraniani o quant'altro sia fuori dalle coordinate UK/USA, mi faccio sempre questa domanda: "Ma se fossero del Wyoming o del Galles sarebbero lo stesso così imprescindibili?" E soprattutto quando si parla di Asia, e nello specifico di Giappone, il rischio di approccio (magari involontario) Orientalista alla materia è altissimo. Purtroppo il Giappone rimane un magnete per miti farlocchi e monomaniaci di ogni sorta, che si parli del Giappone tradizionale o di quello contemporaneo, conosco poca gente con un approccio critico e "apèerto" verso il Sol Levante. Ah e visto che lo citi, sono rimasto di stucco quando, intorno a 10 anni fa, anche nelle riviste italiane si incomincio a recensire roba Visual Kei, che sinceramente, per quello che ne sapevo dagli stessi giapponesi, era un fenomeno morto e sepolto a fine '80. Poi non ho mai digerito chi prepone la forma alla sostanza, ed è purtroppo uno dei problemi maggiori del vivere in Giappone, ossia la patina "finta" che ricopre un po' tutto, dai rapporti umani in sù. Cmq oh, complimenti per l'incastro che vi siete presi ragazzi!

loson (ha votato 7 questo disco) alle 15:19 del 30 luglio 2013 ha scritto:

"E soprattutto quando si parla di Asia, e nello specifico di Giappone, il rischio di approccio (magari involontario) Orientalista alla materia è altissimo." --> Personalmente adoro scene musicali che vanno dal Brasile alla Polonia, finanche giapponesi e - sto cominciando adesso, sempre con pigrizia - coreane. Tutte scene dalle identità ben delineate, assai caratteristiche. L'approccio "sono sospettoso verso tutto ciò che sta fuori dall'asse USA/UK" credo valga tanto quanto l'opposto "OMG quant'è figa TUTTA la musica giapponese (o iraniana, etiope, etc.)". Generalizzare è sempre un'arma a doppio taglio. Che esista una schiera di fanatici/maniaci che venerano incondizionatamente tutto quanto proviene dal Giappone è verissimo, ma non è il mio caso nè quello di Vassilios. C'è il bello e c'è il meno bello, dovunque si voglia guardare o ascoltare. Ah, per quanto ne so io il Visual Kei nasce negli '80s, ha il suo picco creativo e commerciale nei '90s, e non è ancora morto (il successo degli ormai sciolti Versailles parla chiaro), anzi è proprio a partire dallo scorso decennio che il genere ha cominciato ad avere un minimo di risonanza internazionale.

Ivor the engine driver alle 16:22 del 30 luglio 2013 ha scritto:

Aspetta Loson, non mi riferivo ne a te ne al recensore, altrimenti non sarei stato qui a discutere. Boh su l visual kei ne saprai sicuro più tu, a fine '90 sinceramente non si vedeva un cd in giro, tantomeno nel 2004 però ripeto mai stato attratto dal genere, per cui probabile mi sbagli.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 17:00 del 30 luglio 2013 ha scritto:

"Aspetta Loson, non mi riferivo ne a te ne al recensore" ---> Sìsì, era solo per puntualizzare. L'approccio acritico a un intero universo musicale - quando non a un'intera cultura - è deprecabile, non ci sono santi. Sul visual kei sto ancora imparando, però non credo di aver detto una castroneria. Tanto per dire: i famosi Malice Mizier, band che fra l'altro detesto (e qui Vassilios mi distruggerà ), hanno raggiunto la massima fortuna commerciale nella seconda metà dei '90s, con "Merveilles" (1997) in seconda posizione oricon e una scia di singoli vendutissimi. I Luna Sea, band che invece adoro, nel '98 davano alle stampe il loro album più venduto (vetta oricon e più di un milione di copie vendute), continuando a ottenere risultati ottimi pure nel 2000, poco prima del -momentaneo - scioglimento (ma si sono riformati nel 2007). Per non parlare dei Dir En Grey che esordiscono nel '99 e raggiungono la massima popolarità nel lustro seguente.

zefis, autore, alle 21:15 del 30 luglio 2013 ha scritto:

OK, vedo a questo punto anche io di intervenire (e mi rodevo le mani a non poterlo fare prima, ma quando non hai la connessione fissa in vacanza ). Beh, dico innanzitutto che i puntuali interventi di Loson hanno anticipato molto di quanto avrei voluto scrivere io, quindi mi limitero' a qualche altra osservazione. I gusti sono gusti, e non mi permetto in alcun modo di sindacare su quelli di Ivor, che avendo vissuto in Giappone, ne parla con una certa cognizione. A me fortunatamente non e' toccato subire il j-pop da una radio o dagli spot pubblicitari della televisione, e capisco che sorbirsi 24 ore su 24 qualsiasi tipo di musica possa fartelo odiare in men che non si dica, a me e' capitato con tanti musicisti rivalutati poi nel corso degli anni che capisco benissimo la sensazione. Non avendo avuto la fortuna di visitare il Giappone (d'altronde, le finanze sono quelle che sono) il mio approccio alla musica giapponese e' nato per caso, oramai ben otto anni fa a causa di un amico. Sono partito dalla Hamasaki e dalla Utada, ma non mi sono certo fermato li', infatti, tempo permettendo, ho intenzione di proporre molto altro, sia qui sia su OndaRock, l'altro sito per il quale scrivo. Se ho deciso, come primi dischi, di proporre quelli della Utada e della Hamasaki, e' perche' ritengo che, nel bene e nel male, siano due delle espressioni piu' autentiche dello zeitgeist pop giapponese a cavallo tra gli anni Novanta e lo scorso decennio. Poi, chiaro che non siano le uniche musiciste meritevoli di menzione: dai primi tre mostruosi dischi della Shiina, a UA, a Chara, a tutto il movimento shibuya-kei: pian piano trattero- d tutto questo, e perche' no, anche del tanto bistrattato visual-kei, che e' ben piu' di una vittoria sulla forma rispetto alla sostanza (per quanto oramai la distinzione tra forma e sostanza oramai sfugge sempre di piu' al mio modo di leggere la musica e l'arte, anche se condivido con te su quanto i formalismi che hanno ingabbiano le relazioni umane in Giappone sono una realta' a dir poco tragica).

Come giustamente scritto anche da Los, il visual-kei ha avuto il suo apice proprio negli anni 90. Diciamo che, se e' vero che molti lo conoscono piu' per le sue manifestazioni Eighties (coi vari BOOWY, Der Zibet, X Japan a dire la loro) e' proprio negli anni 90 che le sue evoluzioni agguantano la piena maturita', e il vero consenso del pubblico. A parte i fenomeni spaccaclassifica come i gia' menzionati Luna Sea e Malice Mizer (che peste ti colga Los DDDDDD) e Dir en grey *che pero' sono stati visual soltanto per i primi due album) a livello midstream proliferano tutta una serie di band che ne arricchiscono i linguaggi (alla fine ogni band acquisisce una fisionomia musicale, ancor prima che propriamente "visiva", che la differenzia da tutte le altre) e ne incrementano la popolarita'. Certo, ben poche sono degne di menzione (e a questo mi ricollego al discorso dello sguardo critico: a considerare quanto pattume sono stato costretto ad ascoltare per ascoltare i miei dischi rabbrvidisco: il Giappone e' sfaccettatissimo, ma attorno alle perle c'e' talmente tanta robaccia indegna che ogni tanto mi domando chi me lo fa fare di proseguire ancora nel ricercare nuova musica. Non prendo insomma tutto quel che passa il convento, considerando quanto odio l'idol system e il sistema di vero e proprio sfruttamento perpetrato dalle grandi label a spese dei loro musicisti). Salverei giusto i Kuroyume, i Lareine e i La'cryma Christi tra quelle Nineties, tra quelle che conosco bene. Negli anni 00 il fenomeno arriva ad abbracciare anche il resto del mondo. Concerti negli States e in Europa (con band quali Alice Nine, Girugamesh, gli sciolti D'espairsRay, i Moi Dix Mois, lo stesso Miyavi a passare anche dalle nostre parti), dischi distribuiti in scala mondiale: insomma, il fenomeno e' tutt'altro che morto, per quanto lontano dagli apici di popolarita' di anni 80 e 90, ma mi riservo magari di parlarne in un articolo a parte.

OK, ho scritto una serie di cavolate, e il pippone e' veramente diventato infinito: mi fa comunque davvero piacere che la mia recensione abbia partorito una discussione cosi' interessante: non so "l'incastro che vi siete presi ragazzi" a cosa si riferisca Ivor, ma lo prendo come un complimento.

loson (ha votato 7 questo disco) alle 21:48 del 30 luglio 2013 ha scritto:

non so "l'incastro che vi siete presi ragazzi" ---> Spero non si riferisse a una posizione sessuale... XD

Ivor the engine driver alle 10:59 del 31 luglio 2013 ha scritto:

Grazie della risposta zefis, per "incastro" intendo fissa/passione/come la volete chiamare . Tanto per chiarire ero in Giappone per lavoro, ho studiato Lingue Orientali a Venezia. Di mio io seguivo la scena garagista, ho avuto anche il culo di conoscere i mitici Guitar Wolf, grazie ad un amico inglese giornalista musicale del Japan Times (anzi se vuoi delle dritte sull'underground giappo lui si chiama Simon Bartz (http://www.japantimes.co.jp/author/int-simon_bartz/) la sua rubrica fuzzy logic è di solito molto divertente. Ma dubito parli di visual kei, j-pop o shibuya kei perchè li odiavamo entrambi Buone vacanze allora!