Ayumi Hamasaki
Rainbow
Non si sfugge da Ayumi Hamasaki. Per dirla in maniera meno perentoria, non si sfugge da Ayumi Hamasaki, qualora si abbia la voglia e l'intenzione di intraprendere un percorso serio e ragionato dei molteplici volti del pop giapponese degli ultimi venti anni, mutaforma cannibale che a livello mainstream ha dato vita a molte delle sue manifestazioni più significative. Tra di esse, la Hamasaki assume una posizione che dire di rilievo è dire poco. Già me li immagino, gli sguardi perplessi e le fronti corrugate: piaccia o meno, l'impatto e l'influenza che la minuta cantante/cantautrice di Fukuoka ha esercitato su un intero stuolo di starlette e aspiranti popstar del Sol Levante è innegabile e, a suo modo, sorprendente, ancor più se si considera l'impietoso ricambio di volti e voci che da sempre è croce e delizia del sistema musicale nipponico.
E dire che le premesse parevano presagire tutt'altro destino, per la Nostra. Passando da un'infanzia difficile a fianco di una madre abbandonata dal marito e una nonna che praticamente la alleva da sola, a un trasferimento nella capitale a soli quattordici anni per aiutare la famiglia, per finire a lavoretti di second'ordine nel mondo dello spettacolo che non fanno altro che aumentare la sua insoddisfazione (ruoli in B-movies di scarsissimo successo, un fallimentare quanto insignificante EP rap, Nothing To Nothing, adesso motivo di spasmodiche ricerche e conti in banca svuotati da parte dei fan più accaniti) e una carriera accademica praticamente troncata sul nascere. Insomma, niente che non lasciasse intravedere un epilogo tutt'altro che edificante a tutta la storia. Ma in fondo, se siamo qui a parlarne, il lieto fine, come nella più classica delle commediole americane, è arrivato: la differenza è che ce ne ricordiamo ancora a sedici anni di distanza.
E' nel 1997, durante una delle frequenti capatine della Hamasaki al Velfarre, discoteca al tempo tra le più note dell'intero Giappone e gestita dalla avex trax (la più grande label discografica d'Oriente, al tempo capace di introiti record grazie al debutto da quattro milioni di copie dei globe e al sophomore da due milioni di una star quale Namie Amuro), che le viene presentato Max Matsuura, produttore sulla cresta dell'onda in cerca di nuovi talenti a cui prestare i suoi servigi. L'incontro è fatale: nonostante una prima ritrosia, l'intesa diventa vincente in breve tempo, e dopo qualche mese speso in lezioni di canto, tutto è pronto per il debutto. Un debutto che al di là dei singoli un po' tentennanti, fa letteralmente il botto: A Song for xx nel 1999 pone infatti all'attenzione del pubblico giapponese una lyricist formidabile, una penna acuta e penetrante che sotto la scusa della dedica al padre mai conosciuto racconta lo sconforto, la solitudine e le angosce di una generazione intera. Certo, musicalmente parlando il prodotto era tutt'altro che maturo e personale, figlio di quel pop tra elettronica di stampo euro e rock appena accennato che in quegli anni imperversava per ogni dove. La voce poi, ancora tradiva un'inesperienza e un'inefficacia espressiva che solo col tempo sarebbero state contenute, finanche arginate. La forza di quelle parole consentì però al progetto di riscuotere un successo insperato, che si consolidò di uscita in uscita (tre album nell'arco di due anni) cementando lo status della Hamasaki da aspirante diva a superstar capace di tour faraonici, tutti rigorosamente sold-out.
Bisogna aspettare però il 2002, affinché il progetto acquisti una fisionomia musicale sua propria, affinché lo scarto di sensibilità da estetiche e influenze varie diventi realmente apprezzabile. E un po' come la Kylie Minogue di Impossible Princess, la trasformazione si concretizza col coinvolgimento in prima persona della titolare in tutto il processo di registrazione e produzione del disco (tanto da adottare il nom-de-plume Crea per le musiche a sua firma). Stanca di essere etichettata come il prodotto di punta della avex (l'uscita del suo primo best in concomitanza con Distance di Hikaru Utada, l'altra regina di vendite del periodo, non fu mai accettata dalla Hamasaki, che vide così crearsi dal nulla una rivalità tra dive progettata ad arte dalle rispettive case discografiche), e desiderosa di maggiore controllo sulla propria carriera, con I am... (ad oggi, il disco più personale della songstress e quello più amato dai fan), ma soprattutto con RAINBOW uscito undici mesi dopo, la sterzata rispetto a quanto li ha preceduti è più che evidente.
Ed è in particolare quest'ultimo a rappresentare la cesura più netta, lo spartiacque che darà poi il via alla fase matura nel curriculum della Nostra: se del suo illustre predecessore adotta la grandeur stilistica, l'autosufficienza creativa e la ricchezza nei timbri, quest'arcobaleno, piuttosto che sancire la fine della tempesta, sembra esserne suo intimo complice, travolgendo col bagliore dei colori ogni cosa al suo passaggio. Tutto in fondo qui è questione di colore: dai frizzanti cambi di ritmo e intensità, alle nuove sfumature ottenute da una voce mai così sicura e self-confident, al rigoglio degli arrangiamenti, perfettamente inseriti in maglie melodiche di ampio respiro, è la varietà, la policromia delle soluzioni sfoggiate a colpire sin da subito, nell'arco di un'ora che sbandiera tutte le potenzialità di cui il j-pop si stava rivelando padrone.
Di fatto, anche a cercarla attentamente, una tendenza generale che accomuni anche una fetta dei brani non la si riesce a trovare. La compattezza, che comunque è stata garantita, va trovata altrove. Magari in quella voce, bambina e arrogante al tempo stesso (a molti parrà semplicemente fastidiosa), romantica ma capace di slanci d'impeto inattesi, signora di un fraseggio totalmente suo, che non si riscontra nemmeno tra molte delle connazionali, solitamente tendenti all'isterico spinto. Magari pure nel mood, introspettivo e sottilmente drammatico, che di rado lascia spazio ad accordi in maggiore e a squarci di brio compositivo. Ogni altra pretesa di omogeneità termina qui.
Si viene pertanto sballottati, senza particolare soluzione di continuità, tra i richiami urban di Real Me (tra i pochissimi esperimenti nel genere, per altro quasi sempre riusciti, da parte della Hamasaki), micro-sinfonie di rock orchestrale (Heartplace), caramelle punk-pop che smorzano la malinconia generale con la semplice forza della loro esuberanza (July 1st, ma soprattutto la conclusiva Independent+, cavalcata chitarristica che spazza via il 90% del pop-rock annacquato made in Japan). E non è tutto.
Non lo è, perché anche quando vengono predilette strade più affini, più in linea coi trascorsi della sua carriera, l'asticella è notevolmente puntata verso l'alto, forse fin dove nemmeno i pochi vertici raggiunti fino a quel punto avevano osato spingersi. La scrittura, decisamente più matura che in passato, affronta così lo scibile j-pop del precedente lustro (scibile che ha contribuito lei stessa a edificare) con rinnovato slancio e personalità. La rincorsa a perdifiato di WE WISH prende il techno-rock di casa Tetsuya Komuro e ne perfeziona le intuizioni, architettando su di esso una trama emotiva di vibrante intensità e struggente dinamismo. Analogamente, sono i saliscendi di colore che si percepiscono nei brani più lenti quali Voyage (tra i singoli capolavoro della cantante, anche grazie all'arioso utilizzo dell'orchestra) o Over (con quei tocchi secchi di tastiera che a breve diventeranno un suo marchio di fabbrica) a trasformare ballate tutto sommato ordinarie, per quanto ben eseguite, in capitoletti dall'innegabile afflato epico, capaci di sublimare rabbia, dolore e quant'altro in un impressionante gioco d'incastri.
Punta di diamante dell'intero lavoro, Free & Easy riassume e al contempo estremizza le diverse tensioni che lo contraddistinguono, condensandone umori e sensazioni in una delle composizioni più ardite e sfrontate dell'epoca. E a pensare che un brano del genere, contro ogni logica di mercato, finì per presentare il disco al pubblico nipponico, ancora abituato all'assetto da power-ballad del precedente lavoro, l'impressione che sia davvero passata un'epoca (nonostante i soli undici anni che ci separano) è forte. Ma erano davvero altri tempi, tempi in cui (detto senza particolari rimpianti nostalgici) ci si poteva permettere di piazzare con successo canzoni in cui il primo ritornello attacca a due minuti e mezzo circa dall'inizio, in cui tastiere dal fascino gotico si succedono a leggiadre arie di zufoli orientali, supportate infine da una ricchezza in fase di scrittura che si concede strofe, pre-chorus e stacchi strumentali in abbondanza per sorreggere un impianto che non si sbaglierebbe a definire progressive, a tutti gli effetti. Soltanto l'inventiva a briglia sciolta di Ringo Shiina ha saputo andare oltre, marcare con un'impronta ancora più decisa l'avvenuto sposalizio tra l'indole fagocitante del j-pop, bramoso di contaminarsi con qualsiasi genere gli capitasse sotto tiro (si pensi che nello stesso anno escono Deep River della Utada e Kiss in the sky di MISIA, il vero testamento dell'urban-pop nipponico), e le mutazioni del prog-rock. Ma questa, a tutti gli effetti, è un'altra storia.
Non sarà l'unico exploit della Hamasaki. Perlomeno fino al 2008, la Nostra continuerà a tenere salde le redini del suo destriero con dischi di notevole spessore, affidandosi sempre più a collaboratori esterni per le musiche e gli arrangiamenti, senza rinunciare al proprio spirito avventuroso, che la porterà a confrontarsi finanche con l'hard-rock, il soul e le frange più bizzarre del pop (specialmente nell'altra sua grande fatica a titolo (miss)understood). Best-of dei primi singoli a parte, è comunque anche e soprattutto merito di questa collezione qui, se alla fine le quotazioni artistiche della sua titolare hanno lievitato in maniera così esponenziale. Pregiudizi a parte, RAINBOW resta tuttora uno dei più fulgidi esempi di quanta creatività abbiano avuto (e continuino, a sprazzi, ad avere) i linguaggi popolari della musica giapponese.
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