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R Recensione

7/10

Brett Anderson

Wilderness

Quando si parla di questo disco, secondo della carriera solista di Brett Anderson dopo l’esperienza coi Suede, credo si parta da presupposti sbagliati. Anzitutto è sbagliato il ricollegare questo passaggio della sua vita artistica al percorso precedentemente intrapreso coi Suede (che tra l’altro sono tornati in auge proprio quest’anno), percorso evidentemente di tutt’altra natura.

Anzi, forse si tratta di strade inverse e complementari. Dove i Suede erano freschezza, Brett è riflessione. Dove i Suede giocavano con una civettuosità tutta giovanile, Brett apporta una maturità senza tempo. Dove i Suede affabulavano con suoni di chitarra super glam -da parte di Butler prima e del giovane Oakes poi-, Brett si concede del tempo per il suo pianoforte e arrangiamenti minimalisti.

Ed è proprio in “Wilderness” che questo minimalismo raggiunge il suo apice. Ma a leggerlo con la freddezza schematica dei tuttologi musicali da salottino non se ne carpirà la profondità leggiadra e disturbante che vi giace, tra le note di violoncello dell’opener “A different place” e l’analisi dell’amarezza dei sentimenti contenuta in “Clowns”, in cui l’amore è un “suono solitario”, che ci deforma, compenetrando tra anima e corpo, facendoci apparire più simili a pagliacci dalle sopracciglia aggrottate che ad uomini che amano senza odio.

Quello che Brett Anderson compie in quest’album, il cui titolo dovrebbe essere già di per sé esemplare, non è altro che uno di quei viaggi al limite della spiritualità con cui tutti noi abbiamo a che fare, che sia davanti ad un pianoforte o la notte quando tutto tace. E’ un diario più che un disco. E’ una rivelazione di pensieri, di immagini, che si stanziano sullo sfondo bianco dell’inverno e di un viaggio silenzioso in treno, di un caffè preso dove nessuno ti conosce, di una spiaggia deserta quando il cielo è plumbeo e anche il mare sa di argento. Non ci si preoccupa di costruire melodie che risultino accattivanti, cosa che invece troveremo più in là in “Black Rainbows”, ma solo di potersi esprimere, di poter mettere in luce quella carica emotiva senza la quale la musica, e l’arte in generale, non avrebbero senso di esistere. Se a tutto questo aggiungiamo che la voce del cantante è da sempre di un’espressività disarmante e di gran perfezione tecnica e stilistica, dotata di una carica sensuale e di un’eleganza senza pari, che quasi ci fanno ravvisare un giovane David Sylvian, traete voi le conclusioni. Se poi sapete già che un album, seppur brevissimo (poco più di 35 minuti), fondato soltanto su voce, pianoforte e strumenti a corda come violino e violoncello, potrebbe annoiarvi, allora state alla larga da “Wilderness”, che a volte si perde in questo suo disquisire puramente emotivo. Ciò non significa, però, che manchino episodi particolarmente efficaci, anzi. Brani come le già citate “A different Place” e “Clowns” ma anche la più dolce e speranzosa “Blessed” e il sapore agrodolce della nostalgica “Back to you”, duettata con Emmanuelle Seigner, fanno breccia sin dal primo ascolto. E quando sembrerà di averle dimenticate, rispunteranno con leggerezza a soffiarti le loro melodie all’orecchio, a bisbigliarle, a suggerirtele come la danza vagheggiata in un sogno.

Che Brett Anderson abbia sperimentato un approccio più intimo e confidenziale non vuol dire che abbia perso la sua forza pop. E l’esempio più lampante di ciò lo troviamo nel brano “P.Marius”, vero capolavoro del disco, in cui l’artista tratteggia poche immagini, esuli di un contesto, di una storia, che l’ascoltatore riuscirà a tessere da sé, immerso com’è in quell’ambiente fatto di rami di cedro, di giorni estivi che pulsano ancora mentre lentamente scivolano via tra la nebbia dei pensieri, di strade che si incontrano nuovamente, di una panchina accanto al lago…

Perché il vero poeta non è colui che ti descrive una storia, ma colui che ti porta ad intraprendere un viaggio di immaginazione in modo che tu possa avere la tua storia. E quella di “Wilderness” è davvero suggestiva. 

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