Coldplay
Mylo Xyloto
Brian Eno preferisco ricordarlo mentre intona versi bianchissimi alle stanze dei figli, ipnotizzato dai fiumi di "Before and After Science"; quel piano iniziale in crescendo, quel synth nel mezzo, la voce calma e magnetica, l'humming in coda... mi mancheranno molto. Sì, preferisco averlo presente così che alla supervisione di quell'orrore vuoto di "Mylo Xyloto", quinto e ultimo (speriamo) album dei Coldplay. E loro invece, Chris Martin e compagni, cerco di ricordarli per la pulizia negli arrangiamenti, le escursioni vocali al cristallo, le melodie semplici e ariose di "Parachutes", soprattutto, e di "A Rush of Blood To The Head", buona parte.
Ma liberata la testa da malinconie piacevoli, "Mylo Xyloto" ci fa capire quanto può essere frainteso, e implicitamente deturpato, l'immaginario pop della scena contemporanea. Allora diciamolo subito: un album pop non è un album di canzonette senza pretese, frivolo collage di operazioni di marketing; sbagliato sminuire in positivo l'ultimo lavoro dei Coldplay liquidandolo con un "svogliato ma si lascia ascoltare". Questa non è l'essenza pop: il fatto che il genere utilizzi soluzioni melodiche intuitive, facilmente fruibili e goderecce all'ascolto non implica una sua povertà musicale. Mentre quest'album non è solo banale o svogliato; è suonato male, prodotto peggio, e di una piattezza di contenuti sconcertante. E' nocivo.
Tralasciando i testi di ciascuna canzone (vi risparmio il teen-dream di "Paradise" e il tremendo ottimismo infantile di "Every Teardrop Is A Waterfall"), non si può sorvolare invece sull'oceano di mediocrità che compone i due singoli (!) di lancio di "Mylo Xyloto": da una parte un tempo pari sorretto da volgari linee di synth di bassa lega, coretti da stadio e finale in prevedibile e plasticoso solo di chitarra, dall'altra sempre un synth iniziale in costante pressione acuta, qualche giro di chitarra a vuoto (prima acustica, poi di nuovo un solo elettrico da brividi di paura), e ancora Chris Martin che dissemina soliti pallosissimi urletti (sì, ancora gli uuuuuh e gli oooooh da stadio tanto cari agli ultimi U2) sulla risalita ritmica della batteria. Due canzoni a specchio nella loro bruttezza, simili per composizione, inserimenti strumentali e tremendo risultato. Ma c'è dell'altro. "Hurts Like Heaven" e gli squilli velocissimi di un sintetizzatore giocattolo, finto cristallino, finto tutto; la noia spalmata di "Us Against The World", costruita su pochi accordi di chitarra e voce da recita natalizia, che non decolla mai (per nostra fortuna); "Charlie Brown" e il suo irritante (e infinito) arpeggio della lead guitar di Buckland.
Le pochissime tracce che si salvano, lo fanno solo perché innocue e quantomeno non fastidiose: l'esplosione e rimbombo di chitarre di "Major Minus", forse l'unica che tiene svegli... forse; e "Up In Flames", la cui discreta beat-intro rubata ai Radiohead è rovinata da una sviluppo linearissimo nel duetto piano-voce. Rimangono canzoni-fantasma sparse in un limbo di ripetitività sconcertante – tra queste, il disordine rumoroso senza capo nè coda di "Don't Let It Break Your Heart" che inneggia all'autostima dopo la fine di un rapporto amoroso (wow, che novità) – e quello che potrebbe essere il capolavoro elettronico dell'album (visto l'horror-medio dell'opera, l'ironia non è affatto scontata): le distorsioni raspose e scoordinate di "Princess of China", featuring Rihanna, su un tappeto dancefloor che fa apparire tremendamente fuori posto il cantante dei Coldplay (alla faccia di chi avrebbe pensato il contrario). Com'è che si dice? "Talmente trash che è quasi un cult". Se non fosse che il trash non ha mai fatto male a nessuno; e quest'album, invece, col suo Sahara di contenuti d'ogni tipo, fa malissimo alla buona musica. Ma anche solo a quella carina.
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