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R Recensione

7,5/10

Ghemon

ORCHIdee

Non capita sempre di scrivere di dischi belli perché obiettivamente belli. Tipo quei dischi che contengono canzoni belle, quelle che riascolti, quelle che fai ascoltare agli altri, a tutti gli altri, quelle che se le incroci nelle traversate tra le modulazioni di frequenza in macchina, alzi il volume e dici, “oh, zitto un po’, ascolta questa”. In Italia, soprattutto. Ghemon (al secolo, Gianluca Picariello, da Avellino) è una delle giovani promesse, ormai sempre meno giovane (artisticamente parlando) e sempre più certezza, dell’hip hop (e non solo) di casa nostra. Hip hop inteso nella sua accezione più onnicomprensiva e per certi versi, sacra se, come raccontano le cronache digitali, prima di arrivare alla musica, ha fatto per diversi anni il writer, altra costola imprescindibile della cultura hip hop.

Che l’hip hop e il rap stiano vivendo uno dei momenti più floridi in Italia è ormai sotto gli occhi di tutti. Quello che non è ancora chiaro, a tutti almeno, è il valore artistico puro, il lavoro, il talento, che sta dietro (molte volte, non sempre) questa musica, questa arte, dove è facile, troppo facile, vedere mescolarsi orde di giovani cialtroni ad artisti veri, capaci spesso di travalicare gli autoreferenziali confini della dottrina pura, fino ad arrivare a definizioni di suoni e individualità artistiche in grado di incontrare i gusti di molti insospettabili. Compreso il sottoscritto.  Tanti gli episodi passati, nella musica, da Lou X a Neffa (e i Sanguemisto), passando per Frankie Hi-NRGFabri Fibra, Colle der Fomento, Piotta, Assalti Frontali, (tanti, ma tanti, altri) tutta gente partita nell’underground più buio fino ad arrivare alle classifiche per tutti, molte volte, nei posti alti alti.

Ghemon, con questo suo quarto album lungo, ORCHIdee, fa sul serio. La produzione è curata nei minimi dettagli e la volontà è precisa. Fare un disco che piaccia, a tutti. A molti almeno. Un disco che entri nelle classifiche e che possa essere ricordato. Quando si arriva a capire che riuscire in quest’intento è cosa da apprezzare e che il concetto stesso di “commerciale”, a meno di non considerare le altissime sfere planetarie, va anche letto in modo filosofico e antropologico, come una sfumatura inevitabile di un artista maturo che vuole raccogliere i frutti dell’esperienza per decodificarla alla perfezione, bene quando tutto ciò è chiaro, e a condizione che lo sia, non potrete non riconoscere la grandezza di quest’album. 

Prodotto da Tommaso Colliva (Muse, Calibro 35) e Marco Olivi, suonato da gente del “calibro” di Enrico Gabrielli, Fabio Rondanini, Rodrigo D’Erasmo, pezzi di Selton, altri musicisti italiani di quelli bravi. Rap suonato quindi, strumenti veri, musica vera, niente campionamenti o loop, tutto al naturale. La voce è semplice e delicata, ora alle prese con soffici estensioni soul, altre volte classicamente spoken-rap. 

Adesso sono qui (il capolavoro), Quando imparerò e Da lei (con lo scudo e la spada) (ottimo rap su brillante soft-funk all’italiana), Crimine (l'altro piccolo capolavoro, da ascoltare obbligatoriamente fino alle fine) e Veleno (Stevie Wonder), Fuoriluogo ovunque e L’Ultima linea (rap al jazz e il Brasile dei Selton) Il Mostro (gangsta groove) Tutto sbagliato (lo vedi che sai scratchare!?), Nessuno vale quanto te (mi ami, ma quanto mi ami?), Ogni benedetto giorno (belle le trombe alla fine), Pomeriggi svogliati (probabilmente, il terzo brano più bello).

La sensazione è che Ghemon sia una delle cose più interessanti del panorama italiano. Non è un disco perfetto, ma la strada è quella giusta. Il successo che il rap sta vivendo in questi anni, anche in Italia, non credo c'entri tanto. C'entra la buona musica, c'entrano le sette note. C'entra la voglia e la passione di persone che amano ancora questo mestiere, nonostante tutto, e fanno ancora le cose al meglio.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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fgodzilla 7,5/10

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