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R Recensione

8/10

Jazzateers

Jazzateers

Nel 1983 le cose stavano davvero cambiando e, ahimè, non per il meglio. La stagione migliore del post punk britannico stava volgendo al termine: alcuni gruppi se ne erano andati, altri cominciavano a mostrare vistosi cedimenti creativi e qualcuno iniziava a volgere un po’ troppo l’orecchio verso le sirene d’oltreoceano. Se solo 2-3 anni prima, ogni settimana, era possibile mettere le mani almeno su un nuovo entusiasmante capolavoro, destinato, così sembrava, a rivoluzionare convinzioni e direzioni musicali e, diciamocelo pure, le nostre traiettorie esistenziali, in quel 1983 la vena si era alquanto inaridita. E allora una bella recensione letta da qualche parte e una copertina che più Velvet Underground non si potrebbe (si va be’ c’era una pistolona P38 gialla al posto della banana, ma comunque sempre paurosamente in bilico fra citazione freudiana e plagio fallico) non potevano fare a meno di accendere qualche speranza nel sottoscritto, alla disperata ricerca di sensazioni passate. E così Jazzateers è stato per diversi mesi oggetto di culto ostinato e appassionato, immancabile presenza vinilica sul mio scassatissimo Technics, tanto da suscitare non poco sarcasmo negli amici, sottoposti a ripetute e continuative sedute di ascolto. Poi sono arrivati gli Smiths e poi Jesus & Mary Chain e il povero Jazzateers è finito nel dimenticatoio, sempre più raramente sfilato dalla sua busta bianca e gialla. E poi, dopo 25 anni e passa, ecco che mi viene la voglia di scoprire se fu una passione giustificata oppure frutto solo di un particolare contesto; mettendo fra parentesi sentimentalismi e personalismi, analizzare con maggiore distacco un’opera che, in ogni caso, ritengo possa essere considerata una piccola sfortunata gemma dell’ultima wave.

La vicenda artistica degli scozzesi Jazzateers, iniziata nel 1980, si presenta piuttosto breve temporalmente e assai intricata dal punto di vista biografico a causa dei frequenti cambiamenti di organico e di improvvisi scioglimenti, seguiti da altrettanto repentine riunioni; un vero guazzabuglio dal quale è difficile districarsi, ma che vede nel duo Ian Burgoyne (chitarra e maitre à penser) e Keith Band (basso) l’asse portante del progetto musicale glaswegiano. Quando ad essi si unisce il talentuoso vocalist Paul Quinn, tutto sembra essere pronto per il debut album via Postcard, ma il fallimento della celeberrima etichetta mette tutto in discussione compresa la stessa sopravvivenza dei Jazzateers. Alcuni mesi di limbo ed ecco riapparire Burgoyne e Band affiancati dal nuovo cantante Grahame Skinner, pronti a dare alle stampe l’ottimo 45 giri “Show me the door/Sixteen reasons”, bissato dall’uscita del debut album “Jazzateers”, detto anche “The gun album” a causa del soggetto raffigurato nella warholiana copertina. L’opera si presenta come sintesi, in buona parte riuscita, di quel suono chitarristico, spensierato e malinconico allo stesso tempo, tipicamente scottish, legato alla etichetta Postcard, la quale sullo scorcio dei ’70 e nei primissimi ’80 seppe lanciare una bella manciata di talenti destinate ad alterne fortune (Josef K, Orange Juice, Aztec Camera fra i più noti), con un approccio più decisamente post punk/neo psichedelico con riferimenti a gruppi come Echo and the Bunnymen, Sound, Chameleons e Psychedelic Furs, il tutto miscelato con l’immancabile spruzzata di Velvet Underground, citati un po’ ovunque nei continui inserti umoristici presenti in quasi ogni brano.

L’album si apre con il compatto e trascinante chitarrismo della splendida "Sixteen Reasons" che, mettendo subito in evidenza affinità e divergenze con il tipico suono Postcard, si presenta decisamente più melodico rispetto a quello obliquo e spigoloso dei Josef K e, contemporaneamente, dotato di una drammaticità e potenza ben diversa  dalle sonorità effervescenti, delicate e sognanti di Aztec Camera o Orange Juice (il cui cantante Edwyn Collins, comunque, sembra ispirare assai da vicino, unitamente a quella di Ian McCulloch la profonda e calda voce di Skinner). Delicati arpeggi e chitarre jingle introducono il breve intrigante pop/jazz di "Heartbeat", sostenuto da un memorabile ritornello vocale, mentre la successiva “Nothing at all” , sporca e ruvida cavalcata elettrica distorta che rimanda all’illustre modello velvetiano "White light/white heat", è decisamente uno dei vertici compositivi dell’intero album. Molto Orange Juice invece l’apertura di “First blood”, brano che prosegue con andamento assi cool con tanto di morbido sax che rimanda agli Psychedelic Furs di "Forever Now", ma che subito, in “Looking for a girl”, brano conclusivo del lato A, lascia il posto al ritorno di chitarre distorte, rumoristico tappeto per una struttura nel suo insieme amabilmente pop, secondo canoni estetici che di lì a poco avrebbero fatto la fortuna di Jesus & Mary Chain. Esuberanza ritmica e saturazioni elettriche contraddistinguono “Baby that’s a no no”,  incipit della seconda parte dell’album, sospesa fra suggestioni Wall of Voodoo e, ancora, rimembranze velvetiane ("Run Run Run"); si prosegue con l’interlocutorio dub/soul di “Once more with feeling”, fin troppo prolisso e costipato di eccessive tastiere, la fluida e accattivante rivisitazione loureediana di “Texan”, il gioiellino pop, altro vertice del disco, "Show me the door", vero manifesto della freschezza, pur sempre velata di una certa malinconia, dell’estetica musicale Postcard. E un finale sorprendente e addirittura spiazzante: dove ci aspetteremmo il classico lentone strappalacrime i Jazzateers piazzano una tesa, nervosa, elettrica, sofferta "Something to prove" che alle consuete influenze Velvet Underground unisce rimandi assai stringenti alle strascicate e ispide esibizioni vocali dell’ altro grande vecchio Iggy Pop.

E ora che la puntina si è rialzata dal vinile, cosa dire? Un album senz’altro diseguale quello dei Jazzateers, alternanza piuttosto variegata di misconosciuti capolavori di rock rumoristico e graziose piacevolezze pop (soprattutto sul lato A) e di qualche riempitivo assolutamente perdibile; ma se ne avete abbastanza di un revival anni ’80 che troppe volte appare privo di autentica emozione, pura forma esteriore, stanco ripetersi di schemi masticati a memoria, provate a tuffarvi in questo originale dell’epoca e, superato l’impatto con una produzione certamente un po’ approssimativa (ma che d’altra parte riesce ad esaltare la ruvidezza “sporca” di alcune tracce) avrete modo di scoprire una gemma (semi)nascosta degli amati eighties.

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target alle 14:14 del 20 maggio 2010 ha scritto:

Mitico Benoit che ci fa esplorare le pieghe più nascoste e prelibate dell'era post-punk e dintorni. Troppo velvettiana, per quanto potente, questa "Nothing at all", mentre mi piace assai la "Sixteen reasons" iniziale. A proposito, visto che me li citi: quand'è che mi recensisci il disco dei Josef K?

fabfabfab alle 15:51 del 20 maggio 2010 ha scritto:

Lo voglio!

Utente non più registrato alle 22:43 del 29 maggio 2010 ha scritto:

Gran disco e grande band, anche se preferisco i da citati e immensi Josef K. Ottima recensione.