R Recensione

6/10

Emily Loizeau

Pays Sauvage

Tre anni fa Emily Loizeau faceva (eccezion fatta per l'autoprodotto semi-amatoriale e pressoché introvabile La folie en tête) il suo debutto sulla scena francese dedicando al padre scomparso il proprio desiderio di raggiungere l'altro capo del mondo e con L'autre bout du monde dava alla luce un singolo e un album che davano l'idea di un talento che probabilmente non aveva che migliorare negli anni a venire, data anche la giovane età dell'esordiente cantautrice.

L'esordio era pieno di perle indimenticabili come l'ironica ballata Je suis Jalouse, la delicata Comment Dire e soprattutto la title-track, un pezzo nel quale venivano fuori in maniera più che convincente le doti vocali ed espressive dell'artista d'Oltralpe.

Dunque riallacciando il filo a quel disco, Emily esaudisce il suo desiderio e alla prova del nove oltrepassa l'oceano con Pays Sauvage.

Ed è proprio di questo desiderio e di questa influenza che si nutre principalmente questa sua seconda opera, intrisa di contaminazioni etniche dell'america caraibica e latina, nonché dell'Africa, che sono evidenti a partire dal titolo e persino dalla copertina dal cd.

Se L'autre bout du monde rappresentava un craque che rivelava l'enormi potenzialità di un'artista cresciuta in una famiglia di artisti (la madre è stata un'attrice inglese di discreta fama), il limite principale di Pays Sauvage è questa ricerca un po' troppo costruita su questi schemi e una certa dilatazione eccessiva che si spinge a volte nella ripetizione.

Intendiamoci, il valore resta comunque abbondantemente oltre la sufficienza, ma date le premesse ci si sarebbe aspettati di qualcosa di meno programmatico e più spontaneo, e l'impressione finale dà l'idea di un certo compiacimento in questa ricerca di sonorità di paesi lontani e appunto, selvaggi.

Un compendio di tutto quello che sta per avvenire ce lo fornisce proprio la title-track con quel suo climax continuo nel quale si dispiega in tutta la sua delicata potenza la voce di Emily, accompagnata da questi ritmi tribali che esplodono in contemporanea mentre la cantautrice si lancia all'assalto nel chorus e riprende fiato nelle strofe antecedenti.

Fais battre ton tambour è una sorta di blues d'annata con le medesime contaminazioni africano-caraibiche e sulle corde di un classico americano si muove precisamente Tell me that you don't cry, una ballata in duetto con David Iver.

La spensierata Sister si muove sulle stesse linee, un singolo che però non contiene la forza espressiva alla quale ci aveva abituato la Loizeau del disco precedente, le cui qualità in questo pezzo vengono un po' banalizzate con un pezzo non certo indimenticabile e troppo ricercato nella sua semplicità.

La derniére pluie pare quasi una sorta di "danza della pioggia" caraibica, dove soltanto il flauto, delle lievi percussioni accompagnano la voce quasi sussurrata e a mo' di filastrocca di Emily.

Con Songes si torna finalmente a quelle ricamate note di classe tipicamente francese che tanto ci avevano fatto amare il suo debutto e dove il cantato si esprime con raffinata delicatezza: non a caso è il pezzo che spicca più su tutti gli altri, ed è la vera perla del disco, che in Coconut madam torna alle modalità iniziali con la sua contaminazione coloniale, con risultati molto più convinti.

La femme à barbe è una vera propria cantilena, una filastrocca divertita e divertente piena di gioia e dalle medesime influenze esotiche che tanto ridondano in Pays Sauvage.

The princess and The toad è un pezzo scritto da Thomas Fersen con il quale duetta, una sorta di recitato che sembra un po' fuori posto con le atmosfere del disco, ma che probabilmente non avrebbe demeritato in altri contesti. Contesti che prontamente tornano al loro posto quando si erge quello che a mio parere è il brano più riuscito di queste contaminazioni, ovvero Ma Maison, dove l'accompagnamento tribale si sposa alla perfezione con le doti vocali della Loizeau.

In Our Dreams è una ballata d'atmosfera densa e coinvolgente, dove possiamo avvertire i battiti di un'ispirazione più partecipe di Emily che interpreta il pezzo in modo impeccabile ed emozionante, come del resto è il brano in questione, uno dei più riusciti dell'intero album.

Dis-moi que toi tu ne pleures-pas è un altro duetto, ma di tutt'altro tenore di quelli con Fersen e Iver, essendo Danyél Waro il protagonista, un artista, sorta di sciamano bianco, che è un'istituzione all'isola di Reunion. Ed è infatti un climax tribale quello del brano in questione, dove la cantautrice francese si fa pian piano di lato per lasciare la scena alle percussioni e al delirio tipicamente afro del suo collega dirimpettaio.

Le coeur d'un geant soffre in maniera un po' greve di queste influenze esotiche e scivola via senza lasciare grandi rimpianti, al contrario magari del pezzo di chiusura che è La Photographie, una piccola gemma di candida bellezza transalpina che tanto ci riporta ad atmosfere più congeniali alla cantautrice francese.

Insomma Emily, hai esaudito il desiderio, hai attraversato l'oceano, sei stata all'altro capo del mondo, hai visitato paesi selvaggi, ma adesso per favore torna da noi, torna indietro che la Francia e l'Europa in fondo non sono poi così male.

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