Dente
L Amore Non è Bello
Giuseppe Peveri, in arte Dente, ovvero: della sostenibile leggerezza del pop. Per San Valentino, festa di tutti gli innamorati, compresi quelli immaginari, ma soprattutto di chi lucra sulle terapie conservative dei primi e sulle legittime aspirazioni dei secondi, il cantautore emiliano ha licenziato il suo terzo album (dopo Anice in Bocca del 2006 e Non C’è Due Senza Te del 2007) previdentemente intitolato L’Amore Non è Bello. Un disco che, volendo fare un po’ gli’indiani e accostare l’orecchio al suolo accidentato dell’hype italiota si candida già a rivelazione tricolore dell’A.D. entrante.
E il bello è che in teoria i numeri ce li avrebbe pure: testi agili e graziosi che con il loro neorealismo rosa, poveri ma belli, pane, amore e wikipedia, aggiornano buffe cartoline da amanti di Peynet ai tempi bui del precariato emotivo e sentimentale, attitudine indie-lo fi accennata quel tanto che non guasta per appannare melodie dal soffio pop così nostalgico e spudorato che sembrano già bell’è pronte per un Sanremo ambientato nel migliore dei mondi possibili.
Scherma melodica da fiorettista di primordine, esotismo leggiadro, arrangiamenti fatti di piccole cose: una base di chitarra acustica, orlature di synth che più settantesco di così si muore, fulminee irruzioni di fiati, qualche intervento di piano, ma tutto flebile, essenziale, scandito quasi mai ridondante, per nulla barocco.
E la scrittura parte proprio alla grande, ma in grande stile sul serio: ne La Presunta Santità Di Irene, collasso downtempo, leggiadria strumentale, aria da boudoir, a tratti sembra rivivere la magia dell’ultimo Battisti mogoliano. Canovaccio battistiano che viene poi ripetuto, con esiti decisamente minori, anche in A Me Piace Lei e Buon Appetito.
Poi piano, piano tutto si sgonfia e dietro l’esile e amorosa spensieratezza fa capolino una certa ripetitività, un gusto un po’ stagnante ed infantile per lo scherzo pop tirato per le lunghe, un (anti)intellettualismo da Baci Perugina e le soluzioni latitano: se Vieni A Vivere sembra una filastrocca anni ’70 di Sergio Endrigo trasposta in una metafora della vita domestica al tempo dei “bamboccioni” e Solo Andata sembra fare il verso al Celentano più cupo, mugugnante, rinunciatario, Voce Piccolina stucca col suo eccesso di vezzeggiativi, Incubo è una bossa-pop che lascia il tempo che trova, Parlando Di Lei A Te ha qualcosa del De Gregori di Rimmel, Quel Mazzolino è una divertente dissertazione amorosa sullo sfondo di uno dei riti di passaggio della nostra generazione: il controllo all’etilometro e il sistematico ritiro della patente.
Un po’ troppo poco per gridare al miracolo. Ma, si sa, l’amore è bello anche perché cieco.
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