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R Recensione

5/10

Il Triangolo

Faccio Un Cinema

Ci hanno davvero provato in tutti i modi e, onestamente, viene difficile biasimarli per questo. Dapprima, in qualità di reduci delle scene punk e screamo lombarde d’inizio millennio, con una finta antologia d’esordio che portava all’estremo la retromania latente del pop italiano dei primi anni ’10 (“Tutte Le Canzoni”, 2012). Poi, esauritosi il primo tentativo in una modesta fiammata di breve durata, con un second act che provava ad ammodernare il vestiario sartoriale senza tuttavia modificare la struttura profonda della loro scrittura (“Un’America”, 2014). Oggi, un po’ a sorpresa dopo una lunga pausa di sei anni, con la prima manifestazione della nuova formazione a due (fuori il batterista Mauro Campoleoni), uno stringatissimo “Faccio Un Cinema” che tenta di rilanciare le quotazioni de Il Triangolo nel già affollato agone it-pop. Non esattamente quel che si direbbe essere una soddisfacente parabola evolutiva: e difatti, pur accodandosi alla tendenza recente che vuole tutti i prodotti pop rimanere ampiamente sotto la mezz’ora (Bomba Dischi docet), l’ascolto sembra durare un’eternità.

Anche senza puntare il dito verso i pezzi più esplicitamente costruiti per puntare al grande pubblico (le acustiche pedestri dell’esistenzialista “Il Giorno Sbagliato” con strati di backing tracks a mo’ di arrangiamento: i tremendi fiati sintetici che fanno capolino in “Siamo Diversi”, un’elegia sanremese vecchia di almeno quindici anni), vi sono molti conti che non riescono a tornare in “Faccio Un Cinema”, disco assemblato su un malinteso di fondo: arrivare a parlare la lingua degli ascoltatori di Spotify, snaturando così la propria precedente identità, senza predisporre adeguate strategie di riparazione per assorbire il contraccolpo. A rimanere in piedi, quindi, sono spesso scheletri di brani in perenne transizione, electro-wave all’acqua di rose nei cui ritornelli rimangono incastrate scaglie vetero-baustelliane (la sillabazione del refrain di “Volevo Un Vizio” ricorda quella a getto continuo di “Colombo”), chiassose ruvidità beat (ma “Appunti” è il brano più it-pop oriented della tracklist), leggere striature funky (le chitarrine volatili del singolo “Nella Testa”) e fantasmi dei grandi classici che furono, il cui ostentato passatismo viene qui smorzato in una cornice più marcatamente ottantiana (“Messico” è il blando aggiornamento delle vecchie “Le Forbici” e “La Playa”). Ogni tanto qualcosa che catturi l’attenzione si trova ancora (la storia di droga di “Ivan”, fra chiaroscuri strumentali e ganci immediati, ha un taglio wave che avvince), ma l’insieme, preso in blocco, è così leggero e inconsistente da ottundere.

Non che le prove precedenti fossero capolavori: tutt’altro. Ma ascoltando lo svenevole ritornellone à la Paradiso della conclusiva “Il Cielo” non può non sorgere spontanea una domanda: davvero valeva la pena svoltare di 180° per una roba del genere?

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