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R Recensione

7/10

Piccola Bottega Baltazar

Ladro Di Rose

Questa piccola, grande bottega ha sempre nuovi assi nella manica, non c’è che dire. Dopo aver esportato in lungo ed in largo la sbornia folk vecchio stampo di “Canzoni In Forma Di Fiore” – le cui note pare siano arrivate persino in Corea del Sud, con una cover di “Un Inverno Mite” ad opera di una band locale, gli Orgeltanz – e aver rimarcato la dose con i sospiri jazzati di un “Disco Dei Miracoli” interamente imperniato su uno scritto di Dino Buzzati, arriva ora una svolta di cui si avrà molto a che parlare, se non altro negli ambienti del revival popolare (termine orribile) che alimenta gli alvei del nuovo cantautorato veneto, fino ad ora affine per scelte timbriche e sonore, Luca Bassanese ed Alessandro Grazian fra tutti. Colorandosi di tinte più marcate, varie, tenaci, l’acquarello del sestetto veneto giunge ad una raffinata evoluzione nei contorni delle sponde pop, prima sottese a favore di uno sguardo omnicomprensivo dell’insieme strumentale e adesso fatte risaltare con una maggiore cura verso la melodia.

Non scopriamo certo adesso che l’ambiente in cui la Piccola Bottega Baltazar si muove con maggiore destrezza sia quello legato, in un certo modo, alla letteratura, finanche le forme popolari, basse nella misura fedele del termine. L’elaborazione di “Ladro Di Rose”, con termini e fattezze già accennati nello sviluppo del disco precedente, supera però lo scoglio ingombrante dell’ispirazione esterna e mira a farsi essa stessa tema, racconto, punto di partenza per costruire un lavoro solido, strettamente legato da un generale filo concettuale lungo le sue quindici tracce. I recitati del cantante e chitarrista Giorgio Gobbo diventano miniature da far risuonare a festa, piccole fiabe di divertita eccezionalità vividamente riprodotte in ogni dettaglio, onomatopee incluse (“Sogno Di Maggio”), quando non si ritagliano i consueti squarci di quotidiana interpersonalità da tempo ammirati (“Ferragosto Nell’Orto”, “Se Una Notte D’Inverno”, perfetta ninna nanna da canticchiare sotto la merla) o sfoderano favolistiche narrazioni di intenso folk acustico ingentilite da glockenspiel e mandolino (l’ottima “Nella Casa Del Fauno”).

Il discorso, in ogni caso, si rende decisamente più interessante non appena si sposta sulle traiettorie di progresso accennate appena sopra. Non una novità assoluta (vogliamo ricordare uno dei loro pezzi più famosi, “A Foghi Spenti”?) ma certo un sostanzioso incremento nell’uso del dialetto autoctono alternato all’italiano. Uno specchietto per le allodole magnifico, se usato nella funzione di abbindolare masse di acritiche, insulse camicie verdi alla ricerca di particolarismi da sbandierare, giacché l’idioma è utilizzato come tributo alla terra d’origine, senza scopi politici aggiunti (da inserire nelle etichette di ogni prodotto resistente dop). “La Campana De Bassan” danza su ghirigori vicini ai Virginiana Miller, trovando pure il tempo di incastrare fra le rime una conta d’epoca: “Le Rose D’Ogni Mese” è un tango dal testo solo in apparenza sciocco, ma per questo divertente; “Strologo” si culla su un languido pianoforte in sottofondo.

La grana melodica, poi: da non crederci, almeno ad un primo ascolto. La Piccola Bottega Baltazar va oltre il formato romantico stile “Fantasmi A Nordest” – di per sé uno sguardo sufficientemente eloquente alla costruzione dei “tre minuti” – e colleziona una serie impressionante di potenziali singoli. In sovraimpressione vi è, senza dubbio, “La Donna Del Cowboy”, che tra una citazione e l’altra dei Ricchi e Poveri si erge sulle onde di un elegante rock segmentato dalle nervose pulsazioni della fisarmonica di Marco Toffanin. “Stefania Dorme Vestita” pennella una storia d’amore fra dottore e paziente con inusuali tinte noir ed un crescendo che arriva a tendersi sino ad una conclusione quasi noise. Sebbene vi siano ancora normali sbandamenti, naturali per un disco così lungo ed elaborato, specialmente se involati su canoni non ancora fatti del tutto propri, come in “Ossigeno (Destino Determinato)”, superfluo brit pop pianistico, per contro lampi di grande originalità attraversano il deandreiano mantra laico di “Nostra Signora Delle Antenne”, similitudine della società televisiva, e soprattutto la splendida “L’Ombra Del Caliburo”, metaforico j’accuse all’invadenza del potere in salsa balcanica, con improvvisi scossoni free jazz.

Passano gli anni e cambiano le domande. Indispensabile cominciare a chiedersi, con tali margini di crescita, quale sarà la prossima mossa. Per ora aspettiamo, con rinnovata fiducia, avviandoci verso l’uscita al ritmo del reiterato giro di contrabbasso che chiude “San Martino”…

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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