Bryan Ferry
Olympia
Quasi due lustri dividono Olympia, il nuovo album di Bryan Ferry, da Frantic, il precedente lavoro di inediti datato 2002. Nel lasso di tempo che divide queste due ottime produzioni, l’ex frontman dei Roxi Music tradisce l’assenza di qualsiasi ispirazione “orfica”. Oltre a produrre il tanto criticato Dylanesque, inutile rilettura d’antan dei classici di Bob Dylan, prova a far rivivere l’imperitura fama dei Roxy Music per alcune date live, senza mai confermare il sodalizio in studio. Arrivato a questo punto ecco che “mister dandy” tira fuori l’asso dalla manica dando alle stampe Olympia, un disco la cui fama precede l’uscita grazie ai numerosi featuring altisonanti.
Come al solito, Bryan Ferry non lesina minimante sulle ospitate, anzi, ostenta collaborazioni sempre più invidiabili. Pensare che il folle Flea e il geniale John Greenwood sono i due “giovanotti” delle session strappa più di un sorriso. Continuando a scorrere la line-up, l’importanza degli ospiti coinvolti nelle registrazioni aumenta esponenzialmente: Marcus Miller, David Gilmour, Phil Manzanera, Brian Eno, Nile Rodgers, Dave Stewart etc. etc.
Ad un primo ascolto si nota subito che il Ferry più intimista, emerso con Frantic, cede il passo ad una personalità più istrionica e seducente. Olympia vive attraverso pulsazioni ataviche fatte di suoni ed immagini e si concretizza nel tipico stile patinato del cantautore. La cover dell’album è il manifesto programmatico di questo stile. Ritrae una Kate Moss eburnea e diafana, immortalata in una posa che dovrebbe ricordare l’Olympia dipinta da Manet, una prostituta che creò tanto scalpore nell’opinione pubblica dell’epoca. Infatti, leggendo i testi, non si può non notare che la scrittura rimane legata ad una trama fatta di insolite fantasie e attuali immaginazioni, legate a doppio filo al mondo del sesso in un vortice fortemente evocativo.
Con questo album, Ferry si rimette in gioco, osa ed esagera quasi senza sbagliare. L’impatto iniziale è assicurato da “You can dance”, un brano dal gusto vagamente rock, sorretto da un tappeto martellante di basso ed un tema irresistibile di chitarra. Il brano ostenta una sensualità che ricorda in modo impressionante la tipica dissolutezza delle piste da ballo. Il viaggio continua con "Heartache by Number", pop-rock moderno con chiare reminiscenze melodiche coldplayiane alternate a un refrain bucolico caro ai contemporanei Arcade Fire. Indubbiamente uno tra i brani più estrinseci ai parametri del navigato Ferry. Entusiasmante sarà l’approccio elettro di "Shameless", dove una melodia synth pop di chiara matrice Depeche Mode si interseca con un beat disco-funk.
La voce del Ferry odierno è suadente e tenue, grazie ad un timbro particolare e ad una piccola raucedine sui vibrati che dona un’interpretazione più matura, soprattutto nei brani minimali; come sulla bellissima "Tender is the night", soliloquio dolce e solitario, in cui la voce ed il piano si rincorrono senza mai riuscire a congiungersi perchè disturbate da lievi dissonanze di fondo che ricordano una radio in fase di sintonizzazione.
Nonostante qualche caramellosa e svenevole interpretazione ("No face, no name, no number"), Bryan Ferry scava nella sua eternità come in una miniera e ritrova il suo vero volto modellato da un destino che non finisce oggi di essere compiuto.
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