R Recensione

4/10

Delays

Everything's The Rush

L’unica cosa che ritardano i Delays con questo terzo disco è l’ingresso nella musica che conta. Dopo essersi inseriti con “Faded Seaside Glamour” in un’onda lunga brit-pop (Geneva, Dodgy) con sfumature alt-rock malinconiche (The Autumns), i quattro di Southampton avevano provato a trasformarsi in patinate pop star con il mediocre “You See Colours”, sostenuto dal singolo “Valentine”, a metà tra James Blunt e i Scissor Scisters.

Ora, passati dalla Rough Trade alla Polydor, insistono a voler diventare piccoli idoli per giovinetti euforici, ma arrivano decisamente fuori tempo massimo, finendo per diventare patetici. Il loro poptimism fa man bassa di coretti, di “la la la” e “na na na”, di ritornelli sgargianti, di melodie adolescenziali, di basi che combinano una veste rock e un’attinenza danzereccia ridicola (raramente ho sentito un batterista umiliarsi tanto: suonare a un musical degli Amici di Maria deve dare più soddisfazioni).

È pop mellifluo, niente di più. La voce femminea di Greg Gilbert, che nel primo disco aveva un suo perché e si inseriva in una precisa scia britannica (di nuovo Geneva, JJ72), diventa qui puro esercizio di stucchevolezza. Basti sentire l’attacco di “Girl’s On Fire”, quando Gilbert prova ad abbassarsi a toni rochi con urletti che scimmiottano grottescamente il Bono di “Pride”. In alcuni pezzi (“One More Lie In”, “Friends Are False”) canta il fratello Aaron, e non va meglio, se non altro per l’accento irritante.

Poche cose, se non nessuna, supera il livello di leziosità consentito, anche perché i Delays si prendono estremamente sul serio. Sicché, quando si legge che il suono del disco (registrato a Granada, con lo sfondo della Sierra Nevada) vuole imitare la grandezza dell’orizzonte montano e la vastità del cielo spagnolo (parole di Aaron), viene da chiedersi se non fosse stato meglio per i Delays registrare dentro un box doccia, che almeno avrebbe ovattato certi barocchismi orchestrali inutilmente ambiziosi.

Dubito che questi ragazzi sappiano tornare indietro, adesso che anche certa illuminata stampa britannica li osanna come i nuovi eroi del pop d’oltremanica. Ora basta solo l’avallo delle classifiche e li avremo persi per sempre (con scarsi rimpianti, d’altronde). “Hooray” è già candidato a prossima melodia da stadio, “Love Made Visible” a prossima canzoncina d’amore da dedicare al partner su Radio Diabete, “Touch Down” a prossima colonna sonora di un servizio di Studio Aperto sul flirt tra una velina e un calciatore che va sempre in tribuna, “Pieces” a prossima numero uno di Natale, “No Contest” a prossima incarnazione kitsch del synth-pop anni ottanta, con un surplus di ebetaggine contenutistica (un mucchio di “wuah wuehi” e “oh oh oh uh uh uh”) che risulta quasi insultante per chi ascolta.

Passino la leggerezza, la facilità radiofonica, il pop a colori, le melodie da spiaggia, i testi sciocchini. Ma se è tutto qui, e con la pretesa che si tratti di arte, allora non c’è motivo per soffermarvisi oltre.

V Voti

Voto degli utenti: 4,5/10 in media su 2 voti.
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