Florence + the Machine
How Big, How Blue, How Beautiful
Consentitemi una digressione. Del genio di Paul Epworth, il produttore per eccellenza del nuovo millennio sia in termini di riscontri mercantili che di qualità tecniche, non si può certo lamentare una mancanza di esposizione. Celebratissimo ovunque per un eclettismo forse senza pari (i 4 grammy vinti per il suo lavoro con Adele non possono oscurare un curriculum che spazia dall'indie-rock britannico al neo-soul d'oltreoceano, dall'hip hop al synth-pop, senza considerare la fittissima attività di remixer), capace altresì di imporsi come autore e strumentista, il londinese ha plasmato la musica dell'ultimo decennio come pochi altri. Neppure il web italiano musicaloide è rimasto immune al suo fascino, anche se e qui sta il nocciolo del discorso alcune fra le voci più autorevoli che animano quest'ultimo sono state assai selettive nel citare gli artisti che di Epworth hanno ottenuto i servigi, quasi a voler restringere il campo d'azione di Paul ai propri protetti. E se, quindi, si sopporta la partnership con Adele per via di Rolling In The Deep, meglio non far parola dei brani co-scritti e prodotti per FKA Twigs, Crystal Castles o Annie, evidentemente fonti d'imbarazzo.
Pure sul suo lavoro con Florence Welch vige un inspiegabile silenzio, quasi che album come Lungs (2009) o Ceremonials (2011) non siano manifestazioni e tra le più originali, aggiungerei del suo talento. Per quest'ultimo, in particolare, avevo già messo sul piatto i miei due centesimi quando, recensendo Jessie Ware, confrontai il suo progetto con quello di Welch + Epworth e notai come questi ultimi avessero escogitato una nuova, barocca forma di wall of sound partendo da gospel e pop corale '00s. Sorvolando sul giustamente vituperato vezzo dell'autocitazione, credo ci sia del buono in quell'affermazione. Così come credo ancora nella bontà di Ceremonials, nel suo magnetismo difficilmente inquadrabile, nei suoi pieni stordenti, nei suoi richiami pop-celtici avvolti in atmosfere gothic.
Nel nuovo album targato Florence + The Machine, How Big, How Blue, How Beautiful (Island, 2015). Epworth co-produce e co-firma solo la conclusiva Mother. Probabilmente l'episodio più singolare degli undici proposti, il brano esordisce in sordina con un breve lick di chitarra riverberata, drum machine, poi quello che sembra un brevissimo micro-sample di ottoni in chiave soul (con un po' di fantasia potrebbe ricordare l'incipit di una canzone di Screamadelica); quando irrompe la voce il groove s'accartoccia, aprendosi poi a raddoppi corali fino al ritornello catartico, col distorsore a manetta, e sfociando infine in un coda space-rock di quasi due minuti.
Inevitabilmente, la decisione di fare a meno di Epworth risponde a precise scelte estetiche. Questo è infatti un lavoro più rabbioso/essenziale di Ceremonials e, al tempo stesso, meno fiabesco/naïf di Lungs: il senso di catarsi del primo viene convertito in tortuoso/ribollente calvario mai così rock, laddove l'aplomb fantasy del secondo matura in storytelling mai così adulto. Ecco che una personalità come Markus Dravs scelto a dire della Welch per il lavoro svolto su Homogenic di Björk ma, con tutto il rispetto, sembra che a pesare siano state le più recenti collaborazioni con Arcade Fire, Mumford & Sons e Coldplay appare come la più adatta per questo mutamento di prospettiva. Mutamento che si è dimostrato ancora una volta vincente: l'album esordisce in testa alle classifiche di ben otto paesi tra cui ed è la prima volta per i Florence + The Machine - gli Stati Uniti.
Il primo singolo What Kind Of Man, pubblicato a Febbraio, pare l'ideale raccordo tra passato e presente: il tumulto interiore dell'egocentrica/self-absorbed Welch che dalla mitologia deflagra nella nevrosi, supportato in musica da un cerimoniale che ha nell'impasto di ottoni e pop-rock graffiante il suo punto di forza. Ancora meglio fa' il secondo singolo Ship To Wreck, forse memore dei 'Til Tuesday pur essendo Florence + The Machine al 101%. Le orchestrazioni (ancora gli ottoni della Title Track, gli archi gentili che introducono l'altrimenti esplosiva e stevienicksiana Queen Of Peace) sono presenti ma mai portanti, nel senso che il cuore di questi pezzi è la band (l'esplosivo gospel di Delilah, la soffusa e bluesy Long & Lost), con la differenza che Florence Welch è in missione per conto di se stessa. Eppure, quando sulla scena la tensione si stempera nella coralità gioiosa dei suoi momenti più classici, come avviene nel già indimenticabile trittico Caught - Third Eye - Saint Jude, con quell'ugola squillante a dettare legge e tutt'intorno un fiorire di partiture (Glastonbury docet), ci si accorge una volta di più che alla rossa si finisce col perdonare (o perlomeno condonare) ogni mania di grandezza.
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