Get Cape Wear Cape Fly
Searching For The Hows And Whys
Nonostante continui a ritenere che un giovane cantautore dal nome ordinario (Sam Duckworth, dall’Essex) che si sceglie un nome d’arte con tre punti fermi e una ripetizione non sia degno di stima come uomo, riesce difficile non provare per il suddetto una certa ammirazione musicale, anche dopo questo prosieguo del gradevole “The Chronicles Of A Bohemian Teenager” del 2006.
L’inglesino conferma buone doti di song-writer fresco ed engagé, pronto a muoversi in un territorio tra pop e folk dalle tinte solari ed estremamente mosse, caratterizzato da arrangiamenti vivaci e assai curati, che coinvolgono archi, fiati e persino qualche riferimento jazzante (un bel clarinetto nell’apertura di “Let The Journey Begin”). Quello che conferma, purtroppo, è anche l’incapacità di andare oltre una formula quanto si vuole gradevole e ben confezionata, ma alla lunga ripetitiva: il cantato tra il predicatore e il Paolo Nutini, un po’ menestrellante e un po’ giovanilistico, e il piglio melodico sempre schiettamente pop allietano e convincono, ma non trovano un vero punto di fuga, non lasciano intravedere una prospettiva di sviluppo, un angolo dietro al quale si possa svoltare.
Il disco, allora, è un lunghissimo corridoio pieno di ariose finestre aperte sullo stesso paesaggio: pezzi sostenuti dalla chitarra acustica e da una batteria sempre molto incalzante e giustamente piazzata in primo piano (“Young And Lovestruck”, “Keep Singing Out”, “Find The Time”, il singolo) si alternano a brani più rallentati, dove le percussioni spariscono e l’abbinamento chitarra-voce, sopra tessuti tutti arpeggianti, fa molto colonna sonora di telefilm americano, con scene intimistiche in interni glabri (senza che sia necessariamente un male: molto carine “Moving Forward” e “Postcards From Catalunya”).
Poche canzoni si differenziano: “Waiting For The Monster To Drown”, per la chitarra elettrica che graffia e conferisce una superficie più ruvida; “This Could Be”, per la melodia azzeccata (piccolo gioiello pop); e senz’altro “Better Things”, non certo per il cameo di Kate Nash, ma per l’arpeggio più incupito che le dà un’aria crepuscolare e torva. Pezzo che rimane. Alquanto insipido, invece, il finale, dove spunta anche un piano alla Rufus Wainwright.
Get Cape si fa ascoltare con facilità. È accessibile almeno quanto il pop radiofonico, ma senza infastidire. In macchina ci sta da dio. Fa fischiettare. Mette persino di buonumore. Predica un po’ troppo, sì, ma il suo idealismo vagamente scentrato può fare quasi tenerezza. L’unico problema, a ben vedere, è che è tutto qua.
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