Love
Da Capo
Parlare di Arthur Lee e dei Love significa aprire alcune tra le pagine più eccitanti del rock americano nei favolosi Sixties, una parabola emblematica dellesuberanza creativa mista a sregolatezza insita nella West Coast in quegli anni. La figura del geniale e instabile leader è a dir poco memorabile: padrino riconosciuto del rock (primo a portare Jimi Hendrix in uno studio di registrazione e scout dei Doors presso la Elektra), autore di un album (Forever Changes) universalmente riconosciuto tra i massimi capolavori della sua epoca, chitarrista originale e frontman selvaggio finito in disgrazia, persino in galera, e poi rimesso sugli altari sullonda dei tributi che svariati musicisti ( dai Jesus and Mary Chain ai Calexico) gli hanno via via tributato, prima della morte arrivata nel 2006.
Da Capo è il secondo lavoro del quintetto losangelino, pubblicato agli albori del magico 1967. Lomonimo debutto di qualche mese prima ne aveva chiarito perfettamente le coordinate sonore, al crocevia tra il cristallino folk rock dei Byrds, tentazioni garagiste riviste in anfetamina e sincopi rhythm and blues (il lider maximo è pur sempre nato a Memphis!). Lee decide di alzare la posta, amplia la formazione con laddizione del flautista- sassofonista Tjay Cantrelli e del pianista-clavicembalista Alban Pfisterer, porta il gruppo in sala di registrazione con lintenzione di accentuare la componente lisergica e di contaminare la loro cifra con il pop più raffinato e il jazz. Svolta non da poco, confermata del resto dal titolo dellopera, che comporta il rifiuto di salire sul carro del nascente flower power, anche se quel senso di solare chimera tipica di un David Crosby o dei Jefferson Airplane non verrà mai meno nella loro musica.
Il risultato suona ancora oggi stupefacente, all insegna di una lucida follia che forse manca al più maturo e composto Forever changes. La prima facciata è un autentico vaso di Pandora del pop-rock psichedelico, con innumerevoli spunti che saranno saccheggiati da diversi artisti nel corso degli anni. Si parte con i vertiginosi saliscendi di Stephanie Knows Who, tra impennate chitarristiche, arresti repentini e fraseggi di clavicembalo che si librano impetuosi su cambi di ritmo impossibili, e un interludio free jazz da brividi. Lanima pop di Arthur emerge nella deliziosa "Que Vida!", introdotta dal suono di una bottiglia di champagne appena stappata, in cui un languido ritmo bossanova si incastra in una costruzione melodica degna di Bacharach, sorretta da onirici lustrini dorgano. In questo filone si inserisce inoltre She comes in colors, forte di armonie caleidoscopiche, fiati lussureggianti e arabeschi di clavicembalo, evidente fonte di ispirazione per nomi nobili ( gli Stones di Shes a rainbow) e meno nobili: si pensi allo spudorato plagio targato Madonna e William Orbit in Beautiful Stranger trentanni dopo.
Cè gloria anche per lefebico Bryan MacLean, che si ritaglia uno spazio significativo nella morbida Orange Skies, ultimo tributo al debito byrdsiano ma già proiettata verso quellalternanza di toni limpidi e crepuscolari che costituisce ormai il marchio di fabbrica della band, ed è la prova generale per la sua mitica Alone again or. Anche i tocchi latini e diafani di The Castle anticipano il mood di Forever changes, e sfociano in una intricata parte strumentale spagnoleggiante: Stephen Stills avrà preso appunti per la Bluebird che sarebbe poi apparsa presto su Again dei Buffalo Springfield. La stima tra due dei gruppi paladini del West Coast sound è del resto risaputa e reciproca, non a caso Neil Young in persona registrerà un fugace cameo nella stesura di The Daily Planet sul disco successivo. La prima facciata è suggellata dalla furibonda cavalcata Nuggets di Seven And Seven Is, con distorsioni granitiche e accordi sparati come fucilate su un tappeto ritmico dissennato, fino a una spettrale coda blues: il tutto in poco più di due minuti. Probabilmente il brano più celebre in assoluto nel catalogo Love, e che da oltre 40 anni è inno sacro per migliaia di garage band sparse per il globo.
Il secondo lato del vinile è invece composto da un unica jam di 19 minuti, Revelation aperta da una allucinazione al clavicembalo e che si dipana in una devastante divagazione sul classico tema di Smokestack Lightning, coeva alla Goin home che chiudeva Aftermath delle Pietre, ma con un elemento jazz preponderante, evidente negli inchini a John Coltrane da parte di Cantrelli. Qui la nuova versione allargata dei Love riesce a dare il meglio di sé, con Lee magistrale nel giostrare la sua voce, fragile e sciamanica allo stesso tempo, in un magma sonoro delirante.
Il resto della storia è noto. Da Capo è un clamoroso flop di vendite e i Doors, che ai Love devono parecchie intuizioni, si apprestano a diventare il gruppo di punta della Elektra e della scena della città degli angeli. Lee, ormai perso tra le sue visioni apocalittiche (the news today will be the movies for tomorrow reciterà a breve un verso di A House is not a Motel) e luso crescente di eroina, continua a darsi la zappa sui piedi, rinunciando persino a suonare al festival di Monterey e isolando il gruppo in una tetra magione appena fuori Los Angeles, diventando una specie di Charles Manson senza velleità rivoluzionarie. Da qui la svolta decisa verso il pop orchestrale col successivo Forever Changes per dare ulteriore sfogo alla sua ossessione per il sommo Bacharach - di cui i nostri avevano già trasfigurato il classico My little red book nel debutto - quale nume tutelare del definitivo sincretismo della band. Poi lo sciogliete le righe e la rinascita effimera con la nuova formazione a quattro: giusto il tempo di sfornare gli ultimi lavori di vaglia, lhendrixiano e acidissimo Four Sail e lo scoppiettante Out Here. Un attimo prima di venire inghiottito dal buco nero degli anni Settanta.
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