Patrick Watson
Wooden Arms
Non ha mai goduto delle moine riservate dai vari Pitchfork e derivati verso tanti nomi dall’eldorado indie canadese, Patrick Watson, deus ex machina di un quartetto che porta il suo nome.
Eppure non sfigurerebbe tra i nomi più celebrati sfornati nell’ultima decade dalla nazione di Neil Young e dell’hockey su ghiaccio. Uscito lo scorso maggio, “Wooden arms” è il seguito dell’ottimo “Close to paradise” e ha confermato l’uomo del Quebec come cantautore in possesso di una cifra stilistica credibile, in cui l’impianto folk di base, venato di nervosi impulsi elettronici, sa espandersi attraverso tinte che spaziano dal jazz a vestali baroque pop usate per fortuna con sapienza e parsimonia.
L’uno-due iniziale di “Firewood” e “Tracy’s waters” è un degno manifesto programmatico, con efficaci melodie incastonate tra una ritmica sconnessa e uno scampanellio percussivo scoppiettante. Per non parlare dei rintocchi pianistici dell’epica “Beijing” e delle aritmie della jazzata “Wooden Arms”.
Chi di “Close to Paradise” aveva apprezzato il songwriting vivace potrà invece consolarsi con “Man like you”, in cui una tenue piuma à la Nick Drake fluttua al di sopra di una ballata intima, e con la filastrocca stralunata di “Big bird in a small cage”, trainata da un continuo e placido inserto di banjo e da una ritmica felpata. Fino alle dissonanze incontrollate del dormiveglia di “Down at the beach”, il cui piglio conturbato riporta a galla certe delizie del tardo e incanutito Robert Wyatt.
Nessuna sconvolgente novità sotto il sole, per carità. Ma un'opera solida al quale può essere forse rimproverata una eccessiva attenzione alle strutture dei pezzi a scapito delle canzoni e che lo rende inferiore al predecessore, caratterizzato da una scrittura brillante e precisa. E la thomyorkite acuta della voce di Watson alla lunga inficia leggermente un progetto così ambizioso, mal sposandosi ad esempio con la chincagliera waitsiana di “Traveling salesman” e rendendo noiosa la lunga e tormentata stasi che con “Machinery of the heavens” – quasi una outtake dal disco smemorato dei Radiohead – fa calare il sipario.
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