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R Recensione

7/10

Paul Weller

A Kind Revolution

I segnali di un avvicinamento alle calde ed avvolgenti sonarità soul evidenziate da alcuni episodi di “Saturn Patterns” trovano su “A Kind Revolution”  ampia espansione e varietà di declinazione, in un clima generale rilassato e più morbido del solito. Al tredicesimo album solista e prossimo al traguardo dei sessanta, Weller può ben permettersi di lavorare di sintesi e rivisitazione dei canoni sui quali la sua carriera, dai Jam agli Style Council fino all’incoronazione quale mod father intergenerazionale, è stata costruita.

Non che gli manchi la voglia di sperimentare con sonorità attuali e diavolerie elettroniche, anch’essa già palesata nei più recenti episodi: qui però la propensione sembra delegata all’ampia gamma di versioni strumentali e remix che popola i dischi 2 e 3 della special edition, lasciando alle dieci canzoni che compongono il lavoro in formato singolo un taglio classico ed avvolgente costellato qua e là di piacevoli sorprese e qualche asso nella manica. Ci sono un paio di episodi poco centrati, il pseudo gospel di “The Cranes Are Back” e “Nova”, incerta fra Devo e pub rock, ma per il resto la qualità delle composizioni è ai livelli del fine artigianato che conosciamo, con la capacità straordinaria di “costruire” canzoni che funzionano come meccanismi di precisione.

E magari, per buona misura, metterci dentro qualche scampolo pescato dalla storia del rock inglese degli ultimi cinquanta anni. Come nell’introduzione dell’iniziale “Woo Se Mama” un anthemico boogie che, con il suo hammond e la voce scura può richiamare Steve Winwood ed i Traffic, oppure nella sezione strumentale del funk “She Moves with the Fayre”, dove compare Robert Wyatt in voce e tromba, o ancora nella riesumazione di Boy George, ai cori di “One Tear” decisamente sbilanciata verso il dub con il suo ritmo in levare e gli effetti da camera eco. Fra le cose migliori vanno annoverate anche la ballad “Hopper” dedicata al famoso pittore inglese, costruita su corde folk e contornata da una bella sezione fiati, “New York”, animata da un poderoso groove del basso e dalle percussioni latine, ed il blues chitarristico di “The Satellite Kid” forse l’episodio più aggressivo.

Ad aggiungersi alla lunga serie delle ballate da batticuore del nostro ecco altre due perle: “Long Long Road” è un perfetto esercizio di soul pianistico con corredo di hammond, archi  e cori, mentre la conclusiva “The Impossibile Idea”sfoggia una melodia impastata  nella cucina del più classico pop inglese, lungo una linea che collega idealmente i Beatles ai Blur, e si concede pure una piccola variante a cappella.

Uno così ogni anno Mr. Weller.

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