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R Recensione

7/10

Rufus Wainwright

Out Of The Game

Rigirandomi tra le dita il digipak Decca di “Out Of The Game” la domanda ronzava in testa sempre più arrogante. Specchio specchio delle mie brame chi è il più dandy del reame? Silenzio tombale. Il vetro non risponde, forse è colpa dello stress, dell'infinita rottura di scatole che lo perseguita dai tempi della peste bubbonica. Oppure del caldo malefico di Minosse e soci, più sadico del Jigsaw di "Saw". E comunque: di fronte non c’è una Grimilde alta, bionda e Charlize Theron a fargli il terzo grado. La soluzione al petulante quesito –toh, che sbadato- era invece lì a portata di mano, proprio sotto i miei occhi, superflua ai livelli dell’ennesima domanda dell’ennesimo quizzone dell’ennesimo Carlo Conti replicante. È Rufus il nostro uomo, ragazzi. Oh tranquilli, resto iscritto al partito di Charlize forever and ever. Però che stile, quanta sofisticata incoscienza e –rigoglioso come il Missouri che sfocia nel Delta Mississippi- quale songwriting puro degno dei grandi eletti il nostro bel Rufus, un playmaker smistatore di sani principi estetici pop-rock a cui ogni buon devoto di Elton o Randy dovrebbe strizzare l’occhiolino compiaciuto: il curriculum dice che i nobili geni del padre Loudon Wainwright III, l’acuto sponsor-volpino Van Dyke Parks, almeno un dischetto importante nell’armadio (“Poses”, 2002) e tanti progetti temerari, dalla doppietta orchestral-barocca “Want” ai sonetti shakespeariani musicati in “Songs For Lulu” –ora riuniti nel boxone da buongustai completisti “House Of Rufus”- non mentono, perché Rufus Wainwright ha davvero tutti i prodromi innati di una classe esibizionista, ciarliera e colta, e quel vago, sottile humour anti-seghe autoriali che dopo un po’ ti fermi a pensare “il tipo ci è o ci fa?”. Torniamo allora svelti alla prima riga, alla foto sulla copertina di “Out Of The Game”. Ci trovate un Rufus plasticamente contemplativo delle sue preziose unghie in un interno di policroma decadenza neo-vittoriana, al ragazzo di certo non manca il fegato con quella giacca rosa a quadri degna di Malgioglio e uno stiloso bastone da passeggio esibito quasi fosse l’Excalibur. Provateci voi, al massimo sembrate Riccardo Fogli che se la tira da Ferry sanremese, lui no. Lui ci fa la figura di un perfetto e carismatico vampiro baroque-pop imbucato a un vernissage di Karl Lagerfeld. Tanto per chiarire che ciascun paese ha il dandy che si merita e a noi sempre sul ciglio del default economico ci tocca la digressione finanza-horror di Oscar Giannino. Ben altri Oscar nel diciannovesimo secolo scrivevano “viviamo in un’epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità”, preveggente enciclica dell’oggi che non so cosa darebbe un Roberto D’Agostino per averla soltanto pensata. E se vale per le tette pressurizzate di Melissa Satta e le lauree globetrotter del Trota, non vale per il settimo –“necessario”- capitolo discografico del figliol prodigio Wainwright.   

“…After another unveiling of the bright red herring i walked down Rufus Street. Thinking over it over it how can i get over it. And where in the world will i meet that literary, lean, stripe suited lover…”

La morte e la rinascita, la dipartita di una persona cara e l’arrivo di un figlio, sconquassi emotivi che hanno lasciato segni indelebili sull’ultimo biennio dello chansonnier canadese, riversando contrastanti istantanee di vita durante le lunghe sessions ai Sear Sound e Dunham Sound di New York dell’anno scorso. Il pirotecnico Wainwright 2012 è tutt’altro che prosaicamente fuori dai giochi, sa interiorizzare certe ghirlande barocche, forse eccessive, del sofferto “Release The Stars”, riappropriandosi in un colpo solo -grazie a un Mark Ronson ormai infallibile alchimista retrò-maniaco- di un pop-soul lussureggiante, patinato ma senza grassi superflui, rinvigorito di efficaci rotondità easy-listening e perciò molto, molto appetibile. Qualcosa “che rassereni in tempi molto, molto bui chi sta guidando in macchina oppure perdendo la testa sul dancefloor“. Al Rufus distaccato narratore di personaggi altolocati, disillusi e stanchi -impagabile quel “…look at you, look at you, sucker!” dello sbarazzino singolo che titola l’album (agrodolce brezza tra l’Elton John di “Grey Seal” e i Fleetwood Mac milionari)- calzano a pennello i morbidi panni di una turgida scrittura pop-seventies, mai così diretta, concisa e spensieratamente lieve da circa un decennio. Significa che “Out Of The Game” è in scia al masterpiece “Poses” più di qualunque sua recente uscita, significa che siamo di fronte a un’idea alta e variegata di Pop cantautorale, accessibile ai distratti passeggeri radiofonici quanto allo scafato collezionista di Philly Sound e musical webberiani. “Jericho” incipria un regale feuilleton tardo beatlesiano dall’incedere elegante e corale, un attimo dopo il Bowie soul era “Young Americans” agghinda di acidule spezie glam il cabaret istrionico di “Roshida”. La sua languida ugola s’accomoda bohemienne con gli Abba nel salotto disco di “Barbara”, una giostra di synth e batteria pastellosa, e nel dancereccio synth-pop al neon di “Bitter Tears”, riunendo Martha e l’intera famiglia Wainwright a infiocchettare caldi chorus e voci madreperlate ovunque. Non sazio si diverte a ricreare francesismi soul-funk d’annata (i sensuali controtempi di “Perfect Man”) e convoca Nels Cline dei Wilco a suonare su fumose country ballad transgender (“Respectable Dive”) più Dap Kings, Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs e l’acustica dell’amico Sean Lennon nel bozzolo di viole psych-folk “Sometimes You Need”. Quando Rufus apre il baule dei sentimenti escono fuori cose come il delicato sipario cameristico di “Montauk”, dal nome della località newyorkese dove vive con la neonata figlia e il compagno, cose belle, un’accorata dedica al piano di un padre felicemente turbato dalla nascita dell’amore più disinteressato, una vampata di romanticismo favolistico, l’Eno canzonettaro che ridisegna paesaggistica modale chiuso in una magione del Rochester. Lo scintillio della sfoglia glam-soul, le rifiniture operistiche à la Mercury, la grazia melodica di Bacharach, una “Welcome To The Ball” che mischia appunto vaudeville e giocosa rapsodia Queen alle luci di Broadway secondo Paddy McAloon, e infine il dolente epitaffio di “Candles” -solenne passo d’addio alla madre Kate trafitto da un finale di cornamuse e fisarmonica, organo e rullante marziale- danno l’ispirata cifra stilistica di “Out Of The Game”, lavoro limpido e scaltro che sublima e rilancia tutta l’ambizione del cantautore di Montreal. Signor Wainwright rompa pure l’infame specchio, non ne ha bisogno. “…It's always just that little bit more that doesn't get you what you're looking for…But gets you where you need to go. But the churches have run out of candles.”: bastano poche parole per cicatrizzare in un riflesso immortale tutto il dolore e lo smarrimento della perdita. La sapienza di mostrarsi ogni volta allusivo, frivolo, estroso, profondo in un mondo di mediocrità estesa. L’importanza di chiamarsi Rufus.

“I due punti più deboli della nostra epoca sono la mancanza di principi e la mancanza di immagine.” (copyright Oscar Wilde).

 

 

 

 

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 2 voti.
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maxco74 7,5/10

C Commenti

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Emiliano alle 14:23 del 30 luglio 2012 ha scritto:

Bella recensione, anche se il disco proposto è ben fuori dalle mie corde. Dando un occhio alla copertina mi viene in mente che il buon Rufus probabilmente si serve dallo stesso sarto del governatore della Lombardia.