V Video

R Recensione

9/10

Sinead O Connor

The Lion And The Cobra

 “La fama è una maledizione. È stata la fase peggiore della mia vita, e ringrazio Dio che non dovrò più attraversarla. Credo che tutti noi dobbiamo passare attraverso quell’oscura notte dell’anima, ed io devo essere riconoscente che ciò a me sia accaduto quand’ero giovane”. Così Sinéad O’Connor nel 1997. Esattamente dieci anni prima, il suo debutto discografico: quel “The Lion And The Cobra” che rivela al mondo gli occhi azzurri e grandi, malinconici e teneri sul volto dai tenui lineamenti e il cranio rasato di questa ventenne ragazza irlandese. La sua carica di energia è esattamente quella di chi la vede muoversi con grinta acerba, come capitata per caso in un posto dove non doveva esserci, frugata sul palco da una schiera di riflettori insolenti nella notte dei Grammy’s del 1989 a celebrare il suo primo hit single, Mandinka.

Ben presto sulla stampa tabloid si inizia a leggere di lei che non sa curare la propria immagine, che castiga l’indubbia sua grazia e femminilità in un vestiario messo insieme a caso, con assoluta mancanza di gusto, per non parlare poi di eleganza. Quando canta, però, la sua voce fa ammutolire tutti: dalle proprie corde vocali, Sinéad sprigiona una contagiosa energia, tramite la quale si racconta e mette se stessa – accetta di farlo, almeno in un primo tempo, - nelle mani avide del pubblico. Pubblico con il quale dovrà presto affrontare un rapporto che le crea conflitti non solo interiori. Sente il bisogno di difendersi da questa sovraesposizione mediatica, dal brulichio intorno a sè di esseri curiosi e petulanti che percepisce quanto mai estranei e finanche ostili. Così Sinéad stringe i pugni e li porta, incrociandoli, al petto coperto solo da una canotta azzurra sulla pelle diafana. E negli occhi un fremito insieme di rabbia e paura suscitate dalla consapevolezza che ora si è nel mondo, e il mondo, spesso, non è buono.

Sinéad dichiara la propria sfida: il mondo saprà di lei, ma, allo stesso tempo, è come se volesse trasmetterci il segnale della propria fragilità, che il pudore non le vorrebbe far scoprire ed esporre alla cruda e fredda insensibilità di quelli che stanno là fuori, aspettando ansiosi il suo show: pupille gelide che spuntano dal buio e la scrutano, senza conoscerla. Ed è chiaro che non la si conosca: chissà quanto lei gradisce quei fraintendimenti, quanto le danno piacere le critiche che invariabilmente attira su di sè quando esprime le proprie opinioni, non allineate al senso comune, spiazzanti, paradossali.

Come quando difende le azioni terroristiche dell’IRA, oppure quando attacca la band di fama planetaria grazie alla quale era stata favorita la sua scalata al successo, gli un tempo amati U2, che definisce “pacchiani”. Senza parlare del gesto estremo e più clamoroso: lo strappo dell’immagine di Papa Wojtyla in diretta tv negli Stati Uniti. Un rapporto con la notorietà che Sinéad non riuscirà a risolvere, e dal quale cercherà a più riprese, con vari espedienti, la fuga: avendo dei figli, che poi saranno affidati ai rispettivi padri; dichiarandosi lesbica, forse e più che altro per andare contro, ancora una volta, al senso comune, o meglio becero dei tabloid, che continuano a voler vedere in lei un esempio di sex symbol che si nega; dedicandosi alla meditazione religiosa; infine, annunciando la propria foriuscita dalle scene del rock stardom.

Sinead O’Connor nasce a Dublino, nei suburbi operai di Glenageary, l’8 dicembre del 1966. La sua infanzia è un lungo incubo ininterrotto: a nove anni i genitori si separano e lei viene affidata alla custodia della madre, ma non passa molto tempo prima che i servizi sociali portino alla luce i ricorrenti abusi a cui è sottoposta assieme ai suoi quattro fratelli e ne ristabiliscano la potestà paterna. Ma sul fronte familiare, come su quello geopolitico, la pace non esiste: viene rinchiusa in diversi collegi cattolici da cui è sistematicamente espulsa, a quattordici anni viene arrestata per furto e finisce in riformatorio. All’inizio, la musica per Sinéad O’Connor è rifugio e cura dai traumi di un’infanzia e un’adolescenza travagliate.

Con l’aiuto di Paul Byrne, batterista della band irlandese degli In Tua Nua, del cui primo singolo, Take My Hand (1984), è co-autrice, Sinéad inizia una serie di collaborazioni con varie band irlandesi. Studia piano e canto. Decisivo si rivela l’incontro con il manager Fachtna O’Ceallaigh, tramite il quale entra in contatto con gli U2 ed ha accesso all’etichetta Mother. In questo modo, ottiene la partecipazione alla soundtrack di “The Captive” (1986). Intanto, l’anno prima aveva firmato un contratto con Ensign Records e si era trasferita a Londra. Il passo successivo sarà l’esordio discografico: il titolo dell’album, che Sinéad autoproduce, si richiama al Salmo 91 della Bibbia.

“The Lion and The Cobra” è un’eresia in cui la canzone d’autore celtica abbraccia il trivio del rock ottantesco e lo spinge verso le fredde geometrie di Enya o di Laurie Anderson.

Una pulzella che brama di ardere soltanto e che, difatti, si farà cenere aspersa dalle bocche sfiatate dei talk show o dagli agoni scandalistici, una volta esaurito, nella vampa del debutto, pressoché ogni argomento della sua teoria musicale. Grandi occhi d’ossidiana ne addolciscono l’espressione tenebrosa da fedayn del post femminismo.

Una moderna Isadora Duncan che s’avvita sulle punte d’un lavorio canoro scostante, turbinoso, virtuosistico che mutua dai canti gregoriani ornati la complessità liturgica, dal blues la catarsi pagana e l’astrazione dalle avanguardie post schoemberghiane. Ma, soprattutto, la voce: potentissima e duttile, plasmata da Sinéad mediante il ricorso ad oscillazioni microtonali, che, assieme alle verticali impennate e alle repentine cadute nel baratro delle ottave più basse, rendono la sua interpretazione vocale unica nel panorama delle vocalist donne della seconda metà degli anni ’80.

Ritmata dai soli staccati della chitarra elettrica, Jackie tratteggia il suo orizzonte mitologico-fiabesco, nembi ulcerati dai drammi della storia e da quelli del vissuto, mentre l’interpretazione, ora degna d’una romanza, ora da chiamata alle armi, esorcizza allegoricamente quella che gli psicologi chiamerebbero “sindrome da abbandono”. Le acrobazie vocali e gli acuti gutturali redimono il rock anthemico e le sdolcinatezze pop di Mandinka in un baccanale quasi pagano, una vestale di Saffo che volteggia nuda al chiaro di luna. L’etno-funk polifonico e cibernetico di Jerusalem e I Want Your (Hands On Me) stempera metalliche sfumature glitch e robotiche cadenze hip hop in dancefloor da moschea. La superba Just Like You Said adombra un madrigale synth-folk, un balletto androide scomposto da break beat e rondò di mellotron e avviluppato da efflorescenze vocali fra Enya e Meredith Monk.

Never Get Old combina il “Massenet” della Anderson con la salmodia musulmana, fra remoti tamburi propiziatori e biascicanti frammenti da Ramadam, fino agli osanna redentori di un finale tutto in levare per piano e controtempi di batteria. Come una moderna Antigone, dolorosamente scissa fra faide politiche e sentimentali, dà vita a Troy, straordinaria partitura sintetico-sinfonica di cui la sua voce è a un tempo direttore d’orchestra e principe strumento solista, esalando babiloniche scale di sospiri che s’inerpicano oltre le mura di fuoco del suo assedio psicanalitico. Drink Before The War è quasi trip hop ante litteram con il suo soul ululato e raggelante da cui traspare la koinè di una terra devastata dalla guerra civile, mentre la chitarra di Just Call Me Joe preconizza i fermenti del grunge squassando armonie new age fino al sermone subliminale che cala il sipario su uno degli esordi più strepitosi del decennio.

V Voti

Voto degli utenti: 8,2/10 in media su 9 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
loson 9/10
REBBY 8/10
danter 8/10
luca.r 7,5/10

C Commenti

Ci sono 9 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

PierPaolo alle 9:15 del 21 maggio 2008 ha scritto:

Gran donna

Grande voce, grande anima, e grande recensione. Un applauso.

loson (ha votato 9 questo disco) alle 9:41 del 22 maggio 2008 ha scritto:

siete la coppia più bella del mondo

E bravi i miei Carlo e Simone... Una partnership professionale affiatata, pregna di compentenza e capacità di argomentazione. Il disco è ovviamente bellissimo, la recensione altrettanto. Ovviamente...

TheManMachine, autore, alle 19:46 del 23 maggio 2008 ha scritto:

Sì, certo, grande Sinéad!

Grazie Pier Paolo e grazie Matteo! Troppo buoni! E grazie a tutti i lettori passati e che passeranno di qua. Anche a nome del mio socio Messere Simone, autore dei momenti più coinvolgenti e densi di significato di questo nostro scritto. Sinéad O'Connor mi ha sempre affascinato per la sua dirompente fragilità. Tentare di scrivere qualcosa su di lei, e su questo disco in particolare, è stato un atto d'amore per me... Grazie ancora e a presto!

davide.pagliari1980 (ha votato 9 questo disco) alle 0:20 del 10 giugno 2008 ha scritto:

Sin饌d, nothing compares to you...

Una delle opere pi importanti degli anni '80 (seguita dall'ottimo, acclamatissimo seppur meno incisivo "I do not want, what I haven't got" del '91) resa tale soprattutto dall'utilizzo di una tecnica vocale della Nostra tra le pi dirompenti e influenti di sempre...( Dolores O'Riordan ne l'esempio migliore..).

A mio avviso la pi grande interprete di sempre (con buona pace di Liz Fraser).

Sineadian alle 22:57 del 17 dicembre 2008 ha scritto:

EROINA

E' sempre stata vittima di sè stessa Sinéad ma per quello che ha fatto e per le conseguenze che ha sopportato responsabilmente (mi riferisco alla faccenda del papa) Sinéad è un'eroina. Quello che mi ha sempre smosso è la sua anima...la sua voce riflette proprio la sua anima...ed anche i suoi occhi! è trasparente come il cristallo...e come il cristallo è fragile...lei è con me e sarà sempre parte di me!..si capisce(vedi mio username!!!!)

davide.pagliari1980 (ha votato 9 questo disco) alle 1:48 del 20 dicembre 2008 ha scritto:

Ossessione...

Mi ha sempre ossessionato l'aura espressiva che sprigiona la sua anima...

E' una farfalla nella nebbia...

GVanMorijk (ha votato 8 questo disco) alle 13:26 del 25 febbraio 2009 ha scritto:

Complimenti

Eccellente recensione di un disco di debutto magnifico, una delle più belle voci degli anni 90, ipnotizzante e selvaggia. E' da un po' che non lo ascolto solo per quella leggera patina anni 80 degli arrangiamenti, mi infastidisce un po'.

Mr. Wave (ha votato 8 questo disco) alle 16:52 del 15 dicembre 2009 ha scritto:

''Fragilità il tuo nome è donna'' [cit. W. Shakespeare] Recensione sublime. Complimenti ragazzi

salvatore (ha votato 9 questo disco) alle 12:11 del 27 novembre 2011 ha scritto:

Bravissima, bellissima, fragile Sinéad...

Album strepitoso, il migliore della sua discografia!