R Recensione

6/10

Travis

Ode To J. Smith

I Travis al loro sesto album rigirano la frittata, ben attenti a non riscaldare la minestra (tanto per rimanere nella metafora culinaria).

Sesto album per la band di Glasgow, Scozia, con undici canzoni più la classica bonus track per la versione giapponese. Un album semplice, veloce ed immediato (almeno nelle intenzioni di Fran Healy). Il leader della band, infatti, si era riproposto che la registrazione dell’intero materiale contenuto nell’album sarebbe dovuta avvenire in due settimane, proprio per dare concretezza tanto della velocità quanto della semplicità sia a livello dell’ispirazione che a livello della realizzazione delle sue nuove canzoni. È così accaduto che l’album sia stato registrato tra febbraio e marzo, mixato tra marzo ed aprile e pubblicato il 29 settembre 2008. 

Accolto favorevolmente dalla critica inglese (la maggior parte delle review professionali ha dato voti più che positivi), l’album propone una sostanziale novità rispetto al recente passato: un ritorno aggressivo della chitarra elettrica.

Sinceramente, trovo alquanto discutibile l’operazione compiuta dai Travis in quest’ultimo album, per tre grosse ragioni che tenterò brevemente di spiegare.

In primo luogo, perché l’esito non è qualitativamente dei migliori. Sebbene, per intenderci, i Travis riescano anche in quest’album complessivamente a raggiungere la sufficienza, tuttavia, danno alla luce un lavoro poco costante, che raggiunge solo qualche picco degno di nota. Si passa infatti da canzoni discrete ( “Chinese Blues”, “J. Smith” e “Before You Were Young”), a canzoni mediocri (“Long Way Down”, “Broken Mirror”, “Last Words” e “Get Up”), attraverso canzoni di livello sufficiente (“Something Anything”, “Quite Free”, “Friends”, “Song To Self”).

In secondo luogo, perché l’operazione “cambiamento” sembra essere riuscita solo in parte. Infatti, solo il quartetto iniziale, composto nell’ordine da “Chinese Blues”, “J. Smith”, “Something Anything” e “Long Way Down”, con esiti opposti, come già detto, sembrano discostarsi concretamente dalle canzoni pubblicate dalla band negli ultimi anni. Le altre tracce sono timidi e goffi tentativi di ritornare alle proprie radici (quel “Good Feeling” del 1997) o di riproporre qualcosa di nuovo (ma che forse sembra nuovo solo a loro).

In terzo luogo, perché mi sembra che quella compiuta dai Travis sia più una sorta di velleità narcisistica che non un vero e proprio progetto artistico; un’operazione che serve più a compiacere se stessi che non a soddisfare i palati fini del pubblico indie. Ben vengano un po’ di aggressività, di sound elettrico e di aumento di volume, ma i Travis sono stati e devono essere quella band dal lato malinconico applicato ad un modo minimale, lieve e delicato di intendere il pop; caratteristica che ha permesso ai Travis di discostarsi da numerose band pop-rock britanniche che dagli anni 90 ad oggi, seppur con modalità e sonorità differenti, hanno seguito la strada dei toni amplificati e “sopra le righe”, tanto nella dimensione artistica quanto nella vita pseudo-privata.

Dalle tre questioni appena accennate ne deriva come l’operazione “Ode To J. Smith” non possa che portare con sé limiti tanto inevitabili quanto grossolani: gli assoli di chitarra elettrica, pacchiani e di cattivo gusto (e per fortuna brevi), nel bel mezzo di “Last Words” e di “Something Anything” e sul finale di “Quite Free”, i Travis che imitano i Jets che imitano gli Oasis in “Long Way Down”, la sorprendente insipidità di “Broken Mirror”, i lamenti quasi stonati di Fran Healy in “Last Words”, le schitarrate e i riff alquanto banali e scontati di “Something Anything” e di “Get Up”.

Tutto ciò dimostra come la questione non verta affatto sui temi “chitarra elettrica vs. chitarra acustica”, “rock vs. pop”, ecc. Si tratta piuttosto di una questione di qualità, nei confronti della quale i Travis sono stati sempre piuttosto ambivalenti, mostrando chiaramente di preferire la quantità, come dimostrato in maniera inequivocabile dall’estrema prolificità della band di Glasgow. Tanto per citare qualche dato, i Travis hanno pubblicato in 12 anni di carriera una settantina di canzoni (suddivise in 6 album) più una ulteriore sessantina di brani inediti (contenute nei vari EP e singles); nel solo 2007 hanno pubblicato le 13 canzoni contenute in “The Boy With No Name” e 8 b-sides inedite (contenute nei singles), cui sono seguite quest’anno le 11 canzoni di “Ode To J. Smith” e 5 ulteriori sono già pronte per EP e singles.

Proprio questo dato, probabilmente, dovrebbe spingere a pensare ai Travis come ad una band incostante, certamente capace di mostrare il proprio valore in alcune occasioni; fondamentalmente una band più di quantità che di qualità, sebbene con risultati complessivamente sufficienti.

V Voti

Voto degli utenti: 5,6/10 in media su 7 voti.
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MinoS. 4/10

C Commenti

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Alessandro Pascale alle 0:30 del 10 ottobre 2008 ha scritto:

Che peccato che una rece così ben calibrata e ben scritta sia stata "sprecata" per parlare di un gruppo ormai sì mediocre e insipido quale i Travis. No davvero il Maniglio si merita dei complimentoni per aver fatto un'analisi eccellente di un disco che poteva essere liquidato in due parole. E' sempre facile versare fiumi di pagine sui dischi-capolavoro che si adora. Molto meno cercare di attestarsi su un disco mediocre come questo senza scadere in facili stroncature o rivalutazioni eccessive.

swansong alle 10:59 del 10 ottobre 2008 ha scritto:

D'accordissimo con Peasy!

fabfabfab (ha votato 5 questo disco) alle 15:57 del 10 ottobre 2008 ha scritto:

Veramente ... fare una bella recensione di un disco così cesso non dev'essere stato facile ...

Roberto Maniglio, autore, alle 23:29 del 10 ottobre 2008 ha scritto:

Grazie a tutti per i complimenti. Sono contento che sia piaciuta la recensione. Ho potuto sfogare anni di amarezze che i signori Travis mi hanno gentilmente concesso, dopo essere stati uno dei mie gruppi preferiti (uno dei miei peccati di gioventù).

target alle 10:08 del 11 ottobre 2008 ha scritto:

Ebbravo Robè! Dopo "The invisible man" i Travis potevano andare in pensione, e a nessuno sarebbe pianto il cuore.

target alle 10:10 del 11 ottobre 2008 ha scritto:

Ovviamente "The invisible band". La mancanza di sonno sta rodendo il mio cervello come la coca quello di Amy.

hiperwlt (ha votato 7 questo disco) alle 10:52 del 8 gennaio 2009 ha scritto:

un buon album ma nulla più. non sono più gli stessi di "the man who" e si sente parecchio

DucaViola (ha votato 7 questo disco) alle 8:39 del 28 febbraio 2010 ha scritto:

Ho comprato quest'album ieri, l'ho ascoltato gia quattro volte e mi accingo a riascoltarlo nella tarda mattinata. Leggendo questa recensione e i vostri commenti comincio a riflettere sul fatto che la colpa non sia da attribuire totalmente ai Travis ma ad un'epoca che, per un motivo o per un altro, non apprezza più di tanto l'immediatezza. Ovviamente i gusti sono gusti ed ognuno di noi può esprimere un parere e l'esatto opposto... ma a me viene il dubbio che se avessero fatto i "Travis" per otto album avreste comunque trovato da ridire come con gli Oasis; non dimentichiamoci che gli Oasis sono stati criticati proprio per aver tentato di replicare se stessi fino alla paranoia. Quindi se cambi non va bene se resti uguale non va bene. Se analizzo i tre motivi esposti dalla recensione per i quali la band non sarebbe riuscita nell'intento non ne trovo uno che li inchiodi al muro: il primo motivo sarebbe che l'operazione è riuscita solo a metà... e allora? Anche se fosse, almeno è un tentativo. Il secondo motivo è uguale al primo, l'elenco dei quattro brani abbastanza riusciti rispetto ad un resto insipido... il tutto si poteva ridurre ad un solo motivo dal momento che si sta dicendo la medesima cosa con parole diverse. Il terzo motivo è che i Travis non dovevano cambiare strada... un motivo a dir poco bizzarro se si pensa alla musica e all'arte in genere dove le metamorfosi, il mutare stilistico dovrebbe essere il fine ultimo e imprescindibile. Sempre nel terzo motivo si parla di velleità più che di vera ispirazione, di narcisismo più che di voglia di accontentare il pubblico. ma quello che per la recensione è un difetto per me è estremamente positivo quanto ovvio... quale artista dovrebbe pensare prima al pubblico e poi a se stesso? Messa così è come chiedere a Peter Gabriel di fare Nursery Crime tutta la vita. Le band che leccano il culo ai fan con album simili tra loro non mi sono mai piaciute, o comunque meno di chi tenta cambiamenti anche se non perfettamente riusciti. Il disco... mi piace. Viva i Travis.