Duffy
Rockferry
NME li fa e poi li accopp(i)a.
È davvero strano come, a distanza di pochissimo tempo dallesplosione di un determinato fenomeno musicale, fuori dalla porta ci sia bella pronta già una lunghissima fila di emuli o pseudo tali, buoni solo a far parlare di nulla i periodici specializzati, ad attirare un po di hype sulla propria personalità, estrosa o meno che sia, a vendere un po di copie per tirare su le proprie tasche e poi, se tutto va bene, a sparire nel nulla. Fu il turno dellindie rock, riciclo mai del tutto passato e che mensilmente sbarca una quantità di band belle pronte, preconfezionate e senza futuro (accidenti a noi!): toccò poi al revival della new wave, seppur in termini qualitativamente e quantitativamente meno eclatanti.
Ora è il pop-soul a vivere, per così dire, una seconda giovinezza. La colpa, se mai queste siano da attribuire ai singoli artisti, la dovremmo per forza di cose indicare in Amy Winehouse, giovanissima e sensuale regina del made in England, nota sia per il clamore suscitato dal suo Back To Black del 2006 (che, a scanso di equivoci, è veramente un bel disco) sia per le sue vicende private decisamente poco ortodosse, e puntualmente sbandierate sulla prima pagina del Sun. Vanità delle vanità, tutto è vanità: a dire il vero, credo che in pochi si aspettassero di vedere al numero uno delle classifiche europee un album scritto e composto alla maniera dei Sixties, fra swing, jazz, rnb, soul e black music, seppur affrontati con un cipiglio pop-rock e con laiuto del sempre affidabile Mark Ronson. Eppure, ecco arrivare uno strepitoso successo: e con esso, le folle di approfittatori.
Duffy, nome darte di Aimee Anne Duffy, è una bella fanciulla gallese, ventiquattrenne, dai capelli biondi e dal viso angelico, che arriva nel 2008 al suo secondo album in studio, Rockferry, dopo lincolore esordio Aimée Duffy (2004), già prepotente biglietto da visita per quanto potesse concernere limiti e lacune della cantante. Vi basti sapere che New Musical Express lha già definita, senza mezzi termini, la nuova Amy Winehouse. Inevitabile, a questo punto, per chi sta scrivendo in questo momento suo ammiratore a livello sia sonoro che estetico-, provare ad ascoltare lalbum in questione, pur con tutti i dubbi e le diffidenze del caso costruite in quattro anni di reiterate bufale.
Il giudizio, ancora una volta, è nettamente negativo.
E dire che lassaggio era stato, seppur in maniera modesta, non certo deludente: parlo, ovviamente, di quella Mercy che sta spopolando in radio e sulle varie emittenti televisive. Un grazioso two-step soul, con tanto di organetto in sottofondo, ed una voce non potente, non eccezionale, ma nasale e graffiante quanto basta per confezionare lhit perfetta e, nel contempo, la bella pop song. Certo, i coretti erano spudoratamente plasmati sullo stile della ben più accattivante Rehab (indovinate un po di chi?), ma il risultato finale non era da buttare via.
Tutto il resto è mediocre, senza coraggio, stanca pantomima di un revisionismo morto sul nascere. Uninfinita serie di ballate e semi-tali, arrangiamenti banali, soluzioni melodiche ripetitive e alla lunga stancanti. Rockferry, già singolo di successo negli UK, è la summa di quanto detto sopra, scialba canzoncina che-sai-già-come-suonerà-fra-un-attimo. Warwick Avenue prova a sollevarsi dai canoni, con una copertura per chitarra acustica non male, ma la voce di Duffy pare orientata più sui territori del classico lento rnb, e il tutto si risolve in un nulla di fatto.
La situazione non migliora coi pezzi rimanenti: trattasi sempre e solo di pop da classifica con inconcepibili ambizioni colte. Da Scared (perfetto pezzo natalizio) al soul centrifugato, passato in candeggina e lasciato asciugare al sole di Delayed Devotion (una fioca luce in mezzo alle tenebre), al gospel di Hanging On Too Long, tutto suona artefatto, inconsistente, monocorde. Lugola di Duffy, che dovrebbe essere lingrediente principale della pietanza di Rockferry, non è assolutamente quel capolavoro che si va a decantare: vorrebbe essere calda, coinvolgente, ammaliante, e chissà quante altre cose tutte assieme, ma si perde sempre per strada e, pur conservando unottima timbrica, non riesce mai ad emozionare realmente.
Ed il paragone con Amy Winehouse? Mettiamola così: da una parte la ventitreenne di Camfield cantava, sotto un tappeto di sax e ottoni, la bellissima You Know Im No Good. Sai che non sono brava. La voce stessa lo testimoniava: timbro da nera, graffiato dal catrame delle sigarette e dalle sbronze collezionate in anni ed anni a pieno regime alcolico. Dallaltra, una ragazza dalla voce (poco) potente, (poco) incisiva, interpreta oggi Syrup & Honey, faticando a colmare uno iato che un arrangiamento scarnissimo ed un vuoto di idee producono inevitabilmente. Sciroppo e miele, certo. Entrambi congelati.
Avete bisogno di altre prove, per capire che questo disco non si regge in piedi, e che, finito il clamore attorno al genere, rimarrà la sola Winehouse a tenere alta questa bandiera? Io, personalmente, no. Game over, Duffy!
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