R Recensione

8/10

Don Henley

Inside Job

Il grande cantante ed autore statunitense centellina le proprie uscite discografiche: solamente quattro in ventisei anni di carriera solista. Pur essendo questo il suo disco più recente la sua pubblicazione risale infatti all’anno duemila; d’altronde è tipico di quest’uomo rimuginare all’infinito testi, accordi, arrangiamenti, scalette e interpretazioni vocali, in conseguenza del suo particolare carattere che è eufemistico descrivere come inquieto, teso, pignolo, perfezionista, scontento a prescindere.

Tutt’altro che simpatico, a guardarlo, il talentuoso Don Henley: la figura rigida e mai a suo agio, gli occhi agitati, la bocca sottile e nervosa pronta a sibilare qualche battuta caustica, nella parlata velocissima delle persone mai rilassate, con una voce si può dire quasi robotica, carica di una microraucedine del tutto peculiare che la rende sottilmente aliena, un poco meccanica, si potrebbe dire metropolitana, od anche “moderna” (?), in ogni caso capace di trasmettere istantaneamente vera ansia.

Eppure l’uomo è nato in campagna, nel mezzo del nulla texano, e lì è poi anche tornato a stare, mettendosi alle spalle i tanti anni di “vita sulla corsia di sorpasso” a Los Angeles, pieni di ambizioni, stress, eccessi, guai anche giudiziari. Non per niente egli ha amato, ed ancora certamente ama ed amerà, la musica campagnola, pur avendo un timbro vocale e un cipiglio emozionale che sono quanto di più lontano dal bucolico, sereno e rilassato messaggio della cultura di campagna.

Per uno dei tanti miracoli dell’arte questa persona permalosa e difficile, fissata e ipertesa, certamente un rompicoglioni per tutti quelli che hanno a che fare con lui, è capace di grande musica, intimista oppure di denuncia, di emozionanti e comunicative interpretazioni vocali sia romantiche che ciniche, di efficaci testi sia lirici che corrosivi. A proposito di questi ultimi, c’è da dire che l’età ed il benessere non hanno minimamente ammorbidito la sua vena polemica verso le brutture politiche e sociali che lo (ci) circondano. In una maniera molto simile a quella di un altro musicista pure ricchissimo e ancora più incazzato, l’ex-Pink Floyd Roger Waters, Henley non perde occasione per cavalcare buonissime intenzioni umanitarie, scagliandosi polemicamente contro le ingiustizie perpetrate dagli uomini cattivi, devolvendo anche molti soldi verso buone cause ambientaliste.

Difficile dare una sentenza su questo: non è che uno, siccome è ricco, deve per forza stare zitto e godersi il suo benessere, senza fare uscite progressiste dall’inevitabile sapore di ipocrisia. È piuttosto il fatto che Mr. Don Henley ogni tanto se la prende di brutto, nelle sue canzoni, con gli arrampicatori sociali che vendono l’anima a fama e successo… esattamente quello che anche lui ha fatto per tantissimi anni! La stessa persona che a metà degli anni ottanta faceva a spintoni per stare accanto a Sting a una cena (Sting era allora al massimo fulgore di carriera, l’aneddoto è di Joni Mitchell, in una sua biografia), si scaglia nei suoi testi contro la vacuità e la stupidità di questi valori…

Più facile approfondire la sua musica: sempre professionale, intensa, certosinamente pensata ed eseguita. “Inside Job” mostra che, da bravo veterano della scena musicale, il suo controllo nell’emissione vocale è oramai assoluto: Henley canta tremendamente meglio di quanto non faceva negli anni settanta, la sua voce si è affilata e arricchita di sfumature, il suo stile è personale, netto, comunicativo, le sue idee su come far rendere al meglio le proprie doti interpretative sono chiare, frutto di meticolosità e pazienza proverbiali, al servizio di un perfezionismo a livelli patologici che fa sì che, quando egli decide di licenziare una canzone, essa non è effettivamente ed ulteriormente migliorabile.

Don se ne è dunque tornato a vivere nel suo Texas, ha finalmente messo su famiglia e il disco risente di questa nuova fase della sua vita, più equilibrata e, si può dire, serenamente ordinaria. Il risultato è che metà album corre dietro alle sue tipiche corrosive denunce sociali, rivestite da musiche molto urbane, ritmiche e decise, cosparse di elettronica e di blandissima techno. L’altra metà invece è occupata, attraverso timbri caldi, avvolgenti e più tradizionali, a descrivere le gioie della famiglia, dei figli, della testa messa a posto dopo tanti anni di “lunga corsa”, coi suoi momenti di gloria e di polvere.

C’è quasi una specie di schizofrenia nell’ascoltare, poco distanti l’una dall’altra, “Annabel” una pianistica e disarmante ninna nanna d’amore e di responsabilità al cospetto della sua giovanissima figlia dormiente:

…I have had my days of glory, under sunny skies

These days, your bright dreams are all I want to see

Sleep tight, Annabel

You can always count on me…

…ed invece il senso di vuoto e di impotenza comunicato dalla mortifera “Damn it, Rose”, la voce amara come il fiele, autenticamente da brividi di Don, che si rivede sul divano di casa di una sua amica da poco suicidatasi, con in grembo il gatto siamese di lei, addolorato perso e pieno di rimpianti:

…And hell be in and out of trouble

Until he stands up or he falls

But there will always be a shadow there

No matter how it goes

Damn it, Rose…

Grazie a questo andirivieni fra il caustico e l’amoroso, l’amaro e il dolce, l’ironico e lo speranzoso, l’album assume una speciale varietà, a cui contribuiscono gli ospiti illustri (Steve Wonder, Randy Newman, Glenn Frey, Mike Campbell e Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty…). A cinquantadue anni suonati, Henley mostra qui di avere parecchia birra ancora per spremersi efficacemente meningi ed ugola su nuova musica e nuove ficcanti liriche, ben oltre il suo andare in giro per il mondo a riproporre le vecchie, celeberrime cose degli anni settanta, insieme agli anzianotti compagni di gruppo.

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