Kate Bush
The Dreaming
Il buon Voltaire sbagliava, le streghe non sono scomparse appena abbiamo smesso di bruciarle. Io le vedo ancora ovunque, è un pazzo, pazzo mondo di perfide arrampicatrici sociali. Nelle strade, in fila indiana ai cancelli dell’Arcore’s Mansion, alla posta mentre qualche matura signora ci prova (a fotterti il posto). Sono sempre fra noi, con le labbra piene di botox in parlamento e nelle arene catodiche sui segreti di Avetrana, e non servono gli occhiali di “Essi Vivono” per stanarle. Date retta a un povero cristo, la stregoneria non è morta dal XVII secolo (anzi): Francois-Marie se ne faccia una ragione e riposi in pace al Panthéon. Soprattutto nelle arti, quando il talento e la scaltrezza di Venere abbonda state sicuri che vi trovate al cospetto di una moderna lamia dalle magiche virtù. Un paio di decenni fa rapì il mio interesse un suggestivo video dove la protagonista danzava placida tra gli alberi d'una foresta fatata, l’alzarsi del sole mutava veloce nel tramonto e la natura, i suoi colori intensi e vivi sembravano in amniotica simbiosi con quella voce ultraterrena di quattro ottave.
“…The civilised keep alive the territorial war: see the light ram through the gaps in the land. Erase the race that claim the place and say we dig for ore, or dangle devils in a bottle and push them from the pull of the bush…”
Cara, dolce Kate quanto tempo è passato. Il clip di “The Sensual World” mi rivelava senza indugi che Kate Bush era una strega “bianca”, cioè una strega buona, tutto nel suo volto diafano, nei suoi gesti teatrali e nei testi arcani di simbologie esoteriche sprigionava con forza l’idea di un pop-alternativo avviluppato a misteriosi legami ancestrali. Un trademark vocale che farà scuola riverberandosi su centinaia di epigone più o meno talentuose. E una giovane donna dalla sensualità impareggiabile, icona pop-folk che farà palpitare parecchi cuori (i maschietti sanno a cosa alludo). Era Kate Bush, l’allieva di Lindsay Kemp, compositrice, ballerina, coreografa, polistrumentista, la madre di tutte le stregonesche cantautrici che amate ascoltare nelle cuffie del vostro benedetto I-pod (da Elizabeth Frazer, Tori Amos, Bjork alle più giovani Bat For Lashes, Marissa Nadler e Joanna Newsom).
“…Some say that knowledge is something that you never have. Some say that knowledge is something sat in your lap. Some say that heaven is hell. Some say that hell is heaven…”
L’inizio della storia fu un demo di stupefacenti vocalizzi inviato negli uffici della Harvest e capitato nelle mani giuste di David Gilmour, sbalordito che l’autrice fosse una quattordicenne in grado di passeggiare disinvolta da timbriche gotiche e spettrali a registri lievi e fiabeschi, poi arrivarono l’esordio EMI del bellissimo “The Kick Inside” (quello di “Wuthering Heights”, e la ragazza non aveva vent’anni), con il chitarrista dei Pink Floyd a produrle due brani, il mezzo-flop kitsch e frettoloso di “Lionheart”, un flirt “professionale” con Peter Gabriel culminato nel cameo della giovin donzella in “Games Without Frontiers”, gli echi art-rock degli amati Bowie e Roxy Music di “Never For Ever” e quindi la new-wave perlacea del coraggioso “The Dreaming” che, nel caso ci fosse stato bisogno di una credibile alter-ego femminile all’ex frontman dei Genesis, spazzò via ogni dubbio e fece di Kate il prototipo universale di moderna esploratrice rock. Le primitive pitture degli aborigeni australiani smuovevano adesso la sua immaginazione verso sconosciuti orizzonti etno-pop, meno addomesticati alle classifiche e più redditizi alla musa della creatività (il successo sarà abbastanza relativo, un terzo posto in Uk a fronte dell’impietoso score in fondo ai primi 150 di Billboard).
È qui, nei contorsionismi gotici dell’autoprodotto “The Dreaming”, che la strega-fata Bush conquista l’agognata emancipazione artistica, un passaggio decisivo per i futuri progetti dell’eclettica artista inglese e simbolico punto di partenza da mandare a memoria per una pletora di allieve che la prenderanno a modello come capita giusto ai “classici”. La sirena del Kent aveva trovato il suo schizofrenico catalogo avant-pop di pulsanti esorcismi melodici, un songwriting talvolta compiaciuto della sua obliqua ricerca melodica ma distinto da un originale cubo di Rubik strumentale (basterebbe dare un’occhiata alla lunga lista dei collaboratori, tra cui spiccano il poliritmico Stuart Elliott alla batteria, Paul Hardiman al mixing, papà Paddy Bush alla voce, armonica e violini, Alan Murphy alle chitarre, Del Palmer e Danny Thompson al basso, Gilmour ai cori e Dave Lawson ai sintetizzatori), che amalgama e incastra l’allora innovativo synth Fairlight CMI, il synclavier e altre diavolerie elettroniche alle corde acustiche del bouzouki e degli archi. “Sat In Your Lap” è un bel esempio del soave pop agnostico di lady Bush, qualcosa che fa naif l’esotismo wave dell’evangelico Gabriel terzomondista, tambureggiando in una barocca danza bowiana di percussioni soffuse e tastiere rococò su cui l’esagerato campionario timbrico della nostra eroina volteggia tra recitato, toni medi, baritonale e acuti d’isterica precarietà. Uno strano congegno art-synth-pop che incrocia sincopate raffinatezze Japan con i P.I.L. di “Flowers Of Romance”, senza la gabbia ansiogena e il canonico disgusto suburbano dei Lydon boys.
“…With a kiss i'd pass the key and feel your tongue teasing and receiving. With your spit still on my lip, you hit the water. Him and i in the room to prove you are with us too…”
L’Oceania di corpi indigeni e clan totemici pervade la ritmica title-track, e il parallelo videoclip, di lontani richiami tribali alle antiche popolazioni dell’emisfero australe, liberando la ritualità oscura del didjeridu di Rolf Harris e le evanescenti voci raddoppiate, gli esoterismi linguistici della fonetica aborigena e una bizzarra quanto imprevista coda di cornamuse irlandesi. Era l’alba dell’uomo che incontrava i presupposti del beat occidentale in quella terra arcaica tanto uguale all’Africa, un variopinto e anomalo viaggio musicale che dalle tinte pastello del Sogno vira nell’incubo nero e grida spastiche della spiritata “Get Out Of My Life”, che richiama “Shining” di King, e nella dicotomia luce-oscurità dell’inquieto gothic pop di pelli marziali “Leave It Open”. Kate muove leggiadra i fili dietro un cinescopio di eccentriche e ambigue atmosfere, è l'elfa-freak che nel singolo “Suspended In Gaffa” mima un’irresistibile marcetta circense sospesa su impalpabili nuvolette di synth, si fa struggente di post-romanticismo in una ballad pianistica al plenilunio come “All The Love”, per cui molte oggi ucciderebbero, scende nelle fascinose pieghe espressive dell’art-folk di “Night Of The Swallow” e affabula giocosa su pittorici caroselli baroque-pop (“There Goes A Tenner”).
“…This house is full of my mess. This house is full of mistakes. This house is full of madness…”
Forse sarà stato un potente sogno freudiano a disvelare alla ragazza tutta l’ambizione di “The Dreaming”. Nell’autunno dell’ottantadue i suoi occhi da Santa Inquisizione cercavano, nell’onirica front-cover, addirittura la complicità del mitico Houdini. Un flash metaforico che cela la vera magia dietro ogni grande e piccola illusione scenografica: la chiave che apre la realtà delle nostre emozioni e paure è l’amore, lo stesso che permetteva al celebre mago l’impossibile in scena grazie alla compagna-assistente. La medesima chiave che la sacerdotessa Bush ci porge al calare delle tenebre, davanti la porta del suo regno immaginifico di riti millenari, voci filtrate, nenie infantili e malefici perduti nell’occhio dei tempi. E infine il bosco sacro rimase inghiottito dalle creature della notte. Tremate, tremate le streghe son tornate.
“…Wide eyes would clean and dust…Things that decay, things that rust.”
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