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R Recensione

8,5/10

Anthony Davis

Lady Of The Mirrors

Il cognome Davis deve possedere una qualche affinità elettiva con la musica jazz, anzi come la musica e basta.

Come se Miles non bastasse, negli anni '70 fa irruzione sulla scena un pianista originale e difficilmente classificabile, ovvero il giovanissimo Anthony Davis.

Anthony è stato ed è molte cose diverse, ma soprattutto è bravissimo a pensare in termini architettonici la propria musica, portando certi stilemi propri del free maturo (le note ribattute su tempi velocissimi, l'ampio utilizzo di dissonanze, le ritmiche forsennate, il caos “ridisegnato” da un'intelligenza lucidissima) verso le strutture armoniche della classica contemporanea.

Davis sembra un Prokofiev innamorato del jazz libero, ma a differenza del gigante Cecil Taylor non trasforma la musica in un magma ribollente, che rende quasi indecifrabili i passaggi della tastiera e le singole note (anche se a suo modo lo omaggia ed evoca nella splendida “Five Moods From An English Garden”); Anthony preferisce spazializzare i suoni, incanalare il proprio furore verso la razionalità, evocando in tal senso un altro grande pianista del free post-moderno come Paul Bley.

Lady of The Mirrors”, pubblicato nel 1980, è uno fra i lavori più interessanti pubblicati in quella terra di nessuno dove per qualche tempo hanno imperversato le sfide in solitudine, nell'epoca post-free (dopo Braxton ed Evans, decine di musicisti si cimenteranno con le avventurose improvvisazioni per un solo strumento). La lezione di Prokofiev o di un Béla Bartók permea tutta la performance, che vive all'insegna di un camerismo teso e calibrato, che sembra lasciare poco spazio alla meravigliosa, slabbrata logorrea della musica libera. Che valorizza il silenzio, una capacità narrativa meno arrembante e più sinuosa, meno furiosa e più stretegica.

Ciononostante, gli effetti del “break” libero si avvertono ancora: Davis ha lavorato per anni con i maestri dell'epoca post-free, su tutti i grandi improvvisatori come Leo Smith, David Murray, Anthony Braxton o Marion Brown.

La cosa, appunto, si sente: soprattutto negli staccati improvvisi, ma anche nell'uso dell'improvvisazione, che diventa rigorosa, tanto angolare quanto raffinata e cerebrale. Davis si innamora delle forme senza confini della scuola AACM, e si colloca in una dimensione fonica, espressiva e tattile tipicamente afroamericana. Al contempo, però, Anthony mostra un controllo della dinamica proprio del pianista classico, e centellina la potenza del proprio lirismo (l'aura fatalista e romantica di un gigante come Bill Evans rimane piuttosto distante: Davis è meno commovente e autobiografico, indaga le possibilità del pianoforte in termini diversi, logici).

I brani di “Lady of the Mirrors” suonano perciò come miracoli di equilibrismo: i dodici minuti di “Under a Double Moon” incarnano alla perfezione l'universo Davisiano, fra basso ostinato, approccio percussivo, improvvisazione calcolatissima, momenti di toccante melodismo che però sembrano più che altro macchie d'olio nell'acqua, lunghe arcate melodiche ascendenti e discendenti che evocano i complessi incastri e meccanismi ideati da Tristano.

Non che Davis non sia un grande comunicatore, in ogni caso: “Whose's Life” è quasi una ballata, che concede qualche battuta a un lirismo cerebrale (i diversi spunti melodici puntellati dalla mano destra), mentre la sinistra ritorna sempre sullo stesso giro, facendo uso intelligente di pause, accelerazioni e decelerazioni.

Altro momento intimamente camerista è l'introduttiva “Beyond Reason”, dove si avverte ancora echi anche dalla visionaria lucidità di un Lennie Tristano, e dove il gioco delle mani rimane sempre essenziale, cristallino (la destra lascia gocciolare note che abbozzano spunti melodici memorabili, anche quando aumenta l'intensità; la sinistra ribatte sullo stesso accordo a lungo, creando un basso costante che rende l'amtosfera inquieta, sinistra, eppure strutturata in modo puntiglioso, senza che nulla sia lasciato al caso).

Il pianismo di Davis è denso ma anche decisamente bianco ed europeo, sembra accantonare quasi completamente lo swing per sfruttare le potenzialità della musica jazz in modo più ambiguo, defilato.

In una parola, in modo decisamente personale: ma non nel solco della tradizione tormentata di un Bill Evans, e neppure nella prospettiva globale e amplissima di un Keith Jarrett; Davis si muove in termini diversi, in punta di piedi, quasi a disegnare una forma di jazz neo-classico prismica dove convivono alla perfezione rigore compositivo e libertà.

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Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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Paolo Nuzzi alle 12:07 del 2 ottobre 2015 ha scritto:

Non conosco, devo assolutamente colmare la lacuna. Bravo Francesco! Ottima segnalazione!

FrancescoB, autore, alle 12:09 del 2 ottobre 2015 ha scritto:

Per me si tratta di un lavoro molto meritevole e originale, spero di aver reso l'idea della musica che ti attende parlando di un Prokofiev prestato al jazz post free

Paolo Nuzzi alle 12:12 del 2 ottobre 2015 ha scritto:

Io adoro Prokofiev, quindi ho già la bavetta. Speriamo sia reperibile, i dischi su India Navigation sono fuori catalogo da ere geologiche, vediamo discogs ed e-Bay cosa dicono...

FrancescoB, autore, alle 12:26 del 2 ottobre 2015 ha scritto:

Su Spotify lo trovi, per un primo ascolto

Paolo Nuzzi alle 9:56 del 7 ottobre 2015 ha scritto:

Franceschiello, ammetterai che un disco del genere ascoltato su Spotify fa un po' triste. Preferisco cercarlo su supporto fisico, magari vinile o ristampa jappa

FrancescoB, autore, alle 10:22 del 7 ottobre 2015 ha scritto:

D'accordo, ma per un primo approccio ci sta dai

loson (ha votato 7,5 questo disco) alle 12:40 del 6 ottobre 2015 ha scritto:

Questo era veramente difficile, ma come al solito te la sei cavata egregiamente. E' sempre stato tra i miei album jazz preferiti, anche se riascoltato qualche mese mi è piaciuto leggermente meno del solito. Lui resta un mostro d'inventiva, ancora troppo poco considerato dal pubblico jazz.

FrancescoB, autore, alle 20:28 del 6 ottobre 2015 ha scritto:

Ti ringrazio Los: in effetti questo è un disco molto complesso. Spero di averne reso in parte il fascino