Evan Parker
The Snake Decides
Ho un cruccio: mi piacerebbe scambiare due parole con Evan Parker, giusto per capire quale tipo di persona può concepire un disco come The Snake Decides.
Un disco? Io direi più che altro un'esperienza uditiva violenta. Diciamo che la sua visione della musica sta a quella di un John Coltrane così come Pollock sta a Picasso.
Detto altrimenti: se Coltrane vi sembra complesso (e lo è, Ascension ancora oggi potrebbe stendere un cavallo, specie se le sue orecchie sono abituate alla melodia), Parker vi sembrerà uno squilibrato.
Procediamo con ordine: Evan Parker, classe 1944, è fra i primi musicisti europei in grado di razionalizzare e di radicalizzare facendo ricorso a una violenza espressiva sconvolgente l'apporto di idee dell'epopea free e post-free americana.
Ecco così che dopo il capolavoro, un filo più digeribile, intitolato The Topography of the Lungs- Evan Parker brutalizza il free jazz e la musica colta del '900, forzandone sintassi, finalità e schemi fino ad abbattere in modo definitivo e senza possibilità di replica le fragili barriere che separano la musica dal rumore. Il sassofonista arriva a porre seri interrogativi sullo stesso concetto di musica: perché sono convinto del fatto che un buon 90% abbondante degli ascoltatori occasionali non riuscirebbe a classificare come tale quello che si sente in questo disco, e se ne allontanerebbe inorridita.
The Snake Decides in effetti è un po' lavoro da iniziati, perché dà forma al silenzio assordante dell'inconoscio, lo materializza in un'aggressione fonica senza precedenti, di fatto quasi inascoltabile per chi non abbia dimestichezza, e da tempo, con idee tanto radicali.
Evan Parker sembra il fratello matto di Anthony Braxton, e ho detto tutto: delle strutture razionali e puntuali mimetizzate nelle complesse trame del musicista di Chicago qui non si vede neanche l'ombra.
Nelle mani del britannico, il sassofono soprano (tornato in auge dopo la rivalutazione coltraniana) si trasforma in un'arma da guerra, nella più grande fonte di creazione degli armonici mai concepita.
Parker entra in loop, e di fatto esegue un lunghissimo assolo privo di interruzioni, su ritmiche insostenibili, tanto caotico quanto affascinante: la sua musica assomiglia a un caleidoscopio di colori siderali.
La title-track tortura i tuoi timpani per 20 minuti, ininterrottamente, senza dare tregua - con un ricorso parossistico al rumore: identificare frammenti sonori ricorrenti è impossibile, perché Parker conduce di fatto uno studio sulle possibilità fisiche proprie (la topografia dei polmoni) e del proprio strumento, senza preoccuparsi della musica in quanto melodia o armonia, ma solo in quanto suono. Il ricorso a sonorità sgradevoli e brutali, le frasi strozzate e destrutturate fino a perdere ogni identità, i tempi velocissimi, la totale inesistenza di passaggi decifrabili e di pause: tutto contribuisce a rendere The Snake Decides uno fra gli esiti più estremi e a-muicali cui sia mai pervenuta non solo l'avaguardia jazz, ma la musica stessa, in quanto tale.
L'attenzione maniacale dedicata al suono e al timbro, anzi alla capacità di un disco di catturare la musica nella sua essenza, emerge con chiarezza se ci si sofferma a considerare il luogo dove il disco è stato registrato, ovvero la Chiesa di St'Paul, a Oxofrd: Parker riteneva infatti che quello fosse l'unico luogo in grado di ospitare una simile performance, e di consentirne una registrazione il più possibile fedele alla dimensione acustica naturale.
Dinstiguere fra loro i vari brani è mero esercizio di stile, che nulla dice circa la loro vorticosa, coloratissima incomprensibilità.
Eppure, chi è dotato di coraggio in dosi industriali, e soprattutto chi ama il rumore, conceda una chance al sassofonista inglese, da più parti etichettato come il musicista più importante per il suo strumento del dopo Trane.
Forse non si divertirà, sommerso da fischi assordanti e da un'orgia di note e di armonici sparati alla velocità della luce: ma certo scoprirà che la musica è veramente senza confini.
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