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R Recensione

7,5/10

Innercity Ensemble

II

Le spirali di suono degli Innercity Ensemble evocano le cose più ambiziose della musica jazz tutta: il Miles Davis elettrico, quello che negli anni ’70 ha diviso pubblico e critica (da una parte, i fedeli; dall’altra, gli amanti traditi dalla svolta “noise”); avvicinandoci alla nostra era, siamo in zona super-gruppi come gli Spring Heel Jack, e volendo forzare la mano si può scovare qualche somiglianza anche con artisti “di confine” come Third World Love e Supersilent.

Curiosità che tale non è: il complesso ha origini polacche, e chi è un minimo dentro la storia del jazz sa che la provenienza non è casuale.

La Polonia ha una relazione privilegiata con la musica di origine afroamericana sin dagli anni ’60, quando un manipolo di valorosi e visionari compositori, spuntati praticamente dal nulla, ha offerto un contributo chiave all’evoluzione del genere.

Un nome su tutti: il leggendario autore (anche di colonne sonore) Kryzstof Komeda, il cui “Astigmatic” è opera densissima e impareggiabile, un fulgido esempio di jazz polacco, intrinsecamente europeo e cerebrale, eppure capace di accenderti come un lanciafiamme (e infatti la sua fiamma fredda mi ha rapito, e l’ha fatto così bene che ho quasi deciso di inserire “Astigmatic” fra i 10 dischi jazz della mia vita).

Le affinità con gli Innercity sono per la verità relative, e forse più cercate dalla critica che reali, ma ecco Komeda è il capostipite di una genìa di jazz made in Poland che dà frutti ancora oggi.

Veniamo al disco: “II” è il secondo lavoro pubblicato dai sette musicisti (dopo il valevole “Katadhin”, datato 2012), si compone di due dischi (uno bianco e l’altro nero).

La sua forza risiede essenzialmente nella straordinaria ricchezza timbrica e di colori.

Bianco e Nero non sono scelte casuali: il tutto e il nulla, e in mezzo c’è arcobaleno che questi musicisti cavalcano con disinvoltura.

La solenne tromba di Jachna è la voce principale. E sì, mi tocca citarlo di nuovo: il fantasma di Miles Davis fa notare la sua presenza ingombrante, perché l’ottone vive di un lirismo frammentato e austero, le note si dilatano e si spezzano, l’atmosfera è rarefatta. “Fathomless music” si dice a un certo punto, quando Miles si rincitrullisce dentro live abissali e senza direzione come “Agharta” e “Panagea”, e la definizione calza a pennello anche i micidiali garbugli di suono dei polacchi.

La tromba fa la voce grossa, dicevo. Ma ecco, il contributo degli altri musicisti rimane fondamentale: l’accompagnamento non è propriamente jazz, in quanto esce dal tracciato per appropriarsi di stilemi ora folk e avanguardistici, ora chiaramente fusion (“Black 2”, con le percussioni incessanti, la chitarra che lancia scintille, un denso impasto di sintetizzatori all’orizzonte), ora più affini agli ampi paesaggi del post-rock e della musica elettronica in genere.

La lunghezza penalizza forse giusto un paio di brani, che avrebbero reso meglio con un minutaggio più contenuto.

Ma quando azzecca il mood giusto, questa band non sbaglia un colpo: “Black 3” è praticamente un pezzo jazz-rock uscito da qualche oscura jam session del Miles Davis epoca “Jack Johnson”, e adocchia pure gli esperimenti gravitazionali degli Spring Heel Jack, perché piano piano prende quota e non atterra più  (con la tromba che è uno stillicidio di gocce di luce e la chitarra che si contorce da qualche parte in cantina). “Black 4” è un minuto abbondante di tromba sintetizzata e trattata che balla mezzo al cielo, quasi un incrocio fra Spring Heel Jack e Labradford (tradotto: tanta roba), mentre “Black 1” è il brano più rarefatto, che per fortuna decide di ricamare a lungo (con la tromba) sopra un frammento melodico davisianissimo.

Per par condicio mi sento in dovere di celebrare anche qualche frammento del disco “bianco”: “White 2” è forse il capolavoro tout court. La tromba statica e quasi modale è la protagonista, ma ancora una volta sono le trame complessive, prima abissali e poi sature, a fare la differenza, con la chitarra che rintocca accordi sinistri a intervalli regolari, mentre sintetizzatori e labtop che si fondono e si confondono. Non credo di sbagliare se dico che brani simili costano tempo e fatica al mixer, perché qui siamo davvero dalle parti dei geni londinesi (Spring Heel Jack), il paragone con alcune cose di “Amassed” viene naturale e riesce convincente. “White 4” è ancora il Miles elettrico virato folk-rock, perché la chitarra si prende la scena e  costruisce riffs su riffs, instancabile, spigolosa, persa fra riverberi e fischi sinistri.

Non si fosse capito: questi polacchi ci sanno fare sul serio, e questo disco è davvero appetitoso, quindi non provate a inventare scuse come “il jazz non fa per me” o i brani durano troppo. E' vostro preciso dovere spendere per bene un'ora del vostro tempo e restare abbagliati.

 

 

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