R Recensione

9/10

Lennie Tristano

Descent Into The Maelstrom

Parlare di Lennie Tristano, americano doc di origine campane (Aversa), mette un po' di ansia da prestazione.

Perché, a dispetto di una fama non amplissima fra i non cultori, si parla di uno fra i massimi cervelli musicali del secolo scorso. Di un musicista che anche oggi può risultare enigmatico, complesso, indecifrabile.

Cool senza essere veramente cool, bebop a modo proprio, modale e free ancora prima che questi due filoni avessero un nome. E' difficile interagire con il mondo del pianista cieco, lo ammetto: ma forse non si tratta necessariamente di un'avventura per iniziati. Con un po' do coraggio possiamo farlo tutti.

Salto a piè pari tutti i possibili excursus sulla sua vita e sulla sua carriera, perché servirebbero come minimo un romanzo e un trattato di teoria musicale.

Arrivo direttamente a “Descent Into The Maelstrom”, forse il capolavoro definitivo di Lennie, datato 1953 e ispirato all'omonimo racconto di Edgar Allan Poe.

L'opera, criminalmente, sarà pubblicata soltanto nel 1979, a giochi fatti in ambito free e avant-jazz, mi verrebbe da dire. Criminalmente perché, nel 1953, questo lavoro avrebbe rappresentato l'equivalente di una bomba all'idrogeno scaraventata sul mondo del jazz, con diversi anni di anticipo tanto sulle prime incursioni post-bop/ para-free di Charles Mingus, quanto sulle ventate di libertà di Ornette Coleman & C.

Tristano arriva ad esiti non troppo distanti da quelli dei grandi afroamericani, così come dalle complesse elucubrazioni teorizzate da George Russell e poi messe in campo con eleganza impareggiabile da Miles Davis e da Bill Evans, seguendo però un percorso proprio. Studiando a fondo le potenzialità della musica in termini di improvvisazione controllata: Coleman ha riportato il blues rurale e la sua libertà tonale nel complesso universo armonico del bop seguendo un'intuizione un po' naif.

Tristano invece è arrivato alla propria forma di libertà seguendo strade razionali, applicando la matematica, spremendo sino al limite le potenzialità del proprio genio. Il suo jazz non è free, secondo le nostre ristrette categorie mentali: eppure la sua libertà dalle costrizioni armoniche e tonali dominanti lo colloca oltre le rigide categorizzazioni del tempo, tanto che – secondo una consolidata tesi della critica jazz americana – sono da attribuire proprio a Lennie i primi esempi di jazz totalmente informale, affine a una certa avanguardia colta europa, ma sempre dotato della presenza fisica - che aggiunge sapore - tipica della musica afroamericana.

Descent Into The Maelstrom” è un avanguardistico brano per tre pianoforti sovraincisi, che anticipa in tal senso anche le future intuizioni del disceplo Bill Evans, ma che si spinge oltre in termini di architettura concettuale.

La title track è un marasma di lunghe scale ascendenti e discendenti che si intrecciano nei modi più inconsueti: la spinta dissonante delle varie linee altera la struttura armonica del brano, muovendola verso una sorta di caos controllato in grado tanto di sprigionare una forma di libertà assoluta (e a suo modo, appunto, free), quanto di anticipare le future evoluzioni modali della musica (Russell, ancora Evans, Herbie Hancock).

Il brano è veramente una lunga, inquietante caduta, che risulta difficilmente classificabile anche oggi, e che nel 1953 (epoca di hard-bop, di cool jazz nel senso dei pur grandissimi Chet Baker, Brubeck etc..) era del tutto impensabile. Questo brano è cool perché gelido, razionale e calcolatissimo, ma è anche free perché libera la musica jazz dalle catene degli standard e degli improvvisazioni sui ritornelli; ma è anche modale, perché sviluppa linee melodiche del tutto autonome dalla griglia armonica sottostante, originando una sorta di marasma ancestrale di sonorità fra loro confliggenti.

La lunga “Con Con” non cede di un passo in termini di coraggio: la lezione della scuola bop è ancora presente (tracce di Bud Powell, degli spigoli di Monk), ma Tristano si spinge oltre. Il lavoro essenziale e puntellato della batteria e quello meticoloso del basso fanno da sfondo a una sorta di libera improvvisazione di bebop astratto, colorata da sostituzioni, rintocchi sinistri, brevi pause. Ancora Powell e Monk in versione aliena si muovono fra le note delle tre "Take", libere improvvisazioni sul medesimo tema di base (ora più enigmatiche, ora lievemente più liriche).

Un'aurea concettuale permea tutta la performance: la lieve foschia dei piatti di “Ju Ju” immerge le intricate interpolazioni delle mani di Lennie, che con la destra esibisce un virtuosismo non comune costipato dentro architetture del tutto originali (i saliscendi vorticosi, la melodia irregolare e spigolosa, un bebop in versione cubista mi verrebbe da dire), mentre con la mano sinistra svolge un lavoro minimale e oscuro (la continua, ossessiva reiterazione degli accordi).

L'esito complessivo non è distante dalle fughe deliranti di Cecil Taylor, ma Tristano conserva sempre una superiore lucidità, è meno dirompente. Come confermano le due “Dream”, registrate live a Parigi: Tristano è un maestro quando si tratta di cercare l'incoerenza, una sintassi conflittuale, una nuova forma di sistematicità: e così i suoi fraseggi tradizionalmente boppistici si alternano a variazioni tematiche impossibili, che sfaldano i temi di base in una sorta di intricato contrappunto di poliritmi. Senza per questo rinunciare a una certa piacevolezza, quasi che il raziocinio superiore di Lennie potesse tutto, quasi si trattasse di un narratore omnisciente che può cambiare repentinamente registro senza perdere in coerenza strutturale e originalità.

Colpisce nelle linee di Tristano l'irregolarità degli accenti, spigolosa eppure astratta, inafferrabile, a suo modo intrisa di un raggelante lirismo: la breve versione di “Pastime” in tal senso è paradigmatica. Le due linee della melodia, vorticose e a tratti leggermente “allucinate”, sembrano del tutto autonome, quasi che Tristano stesse regalando ad entrambe le mani il ruolo di voce solista, dando origine a un attrito misurato, intelligentemente calibrato.

Artista che certo non riscopro io, ma che in qualche modo merita di essere risoperto anche da un pubblico più vasto di quello dei pianisti più oltraggiosi o della critica jazz: indi, che i lettori si buttino, se desiderano un po' di stupore, una sottile forma di inquietudine.

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Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 3 voti.
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C Commenti

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Paolo Nuzzi (ha votato 10 questo disco) alle 14:56 del 9 dicembre 2015 ha scritto:

France' vorrei abbracciarti. Stai recensendo tutti (o quasi) i miei artisti e dischi preferiti. Descent è un magma sonoro, la testimonianza del genio inarrivabile, avanti a tutti, qual era Lennie, che non aveva paura di mescolare Bach a Monk a Parker, un musicista preparato, eclettico, ma umile. Le altre tracce presenti nel disco, assemblato alla meno peggio e pubblicato con colpevolissimo ritardo, sono da considerare un mero eserizio di stile (ma di lusso) rispetto alla title track, che, ripeto, rappresenta un genio ai suoi massimi storici, insieme a "Requiem", composizione dedicata a Bird. Complimenti!

FrancescoB, autore, alle 20:11 del 9 dicembre 2015 ha scritto:

Paolo sei troppo generoso

Comunque ti ringrazio, cimentarmi con Tristano non è stato facile, anche perché confesso di non possedere tutte le nozioni teoriche necessarie per comprendere a fondo quest'opera. Mi basta in ogni caso incuriosire qualche lettore

Grazie ancora

Paolo Nuzzi (ha votato 10 questo disco) alle 8:49 del 10 dicembre 2015 ha scritto:

Fai benissimo, è una missione nobilissima che sposo in pieno, bravo!