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R Recensione

7/10

Luca Mai

Heavenly Guide

Che fosse una questione di qualità o una formalità, come cantava il Lindo dei tempi d’oro (finiti, e finiti per sempre), sino ad un paio di mesi fa ancora non esisteva in commercio un disco solista intestato al solo Luca Mai. Certo: di per sé, questo trivium non significa niente. Certo: in fondo, non ce n’era bisogno. Certo: tante e tali le esperienze artistiche inanellate in un ventennio abbondante (uno fa presto a dire Zu e Mombu, ma ci sono poi almeno i Divus, i Black Engine, i Neo, gli Udus…), tante e tali le pelli indossate e cangiate, tanti e tali gli esperimenti, le collaborazioni, i crossover che, giunti a questo punto, l’ulteriore esistenza di un lavoro non condiviso con nessun altro non smuove granché la considerazione pregressa sul compositore e sul musicista. La conferma, semmai. E che conferma: maiuscola, imperiosa, totalizzante. Parzialmente sacrificato nelle ultime prove concettuali degli Zu tribal-ambientali (ma, come già accennato nella recensione di “Terminalia Amazonia”, pare sia già in arrivo un nuovo capitolo, per la prima volta con la chitarra di Stefano Pilia ufficialmente in formazione), il sax baritono di Mai torna a furoreggiare da protagonista nei sette inediti di “Heavenly Guide”: Colin Stetson chiamato a rileggere i quattro volumi infernali di “The Classic Guide To Strategy”, le cime abissali di Anthony Braxton e il sangue in ebollizione delle radici jazzcore.

Un aspetto che spesso sfugge a chi da Mai è abituato a pretendere il solo impatto epidermico è la varietà del suo stile, la versatilità del suo approccio: non solo strepiti elefantiaci o improvvise lacerazioni, ma anche fraseggi ariosi, serpentine sognanti, baratri ambientali. “Heavenly Guide” ha il pregio, innegabile, di dare rappresentanza ad ognuna di queste personalità: accanto all’abrasività delle progressioni più incendiarie (“Manum Ad Ferrum” è una violenta scarnificazione di “Mimosa Hostilis” ad uso e consumo del gabber di periferia) trovano quindi legittimità le accecanti visioni cosmic-jazz in reverse della title track, la catacombale slow motion effettata di “The Sound Of His Horn”, l’agghiacciante radiazione cosmica di fondo di “بحر عطلة” (“Bahr Attla”), l’hard-bop viscerale di una “Epistrophy” che sguscia fuori da un sarcofago dark-industrial, persino le sbilenche traiettorie dolphyiane di una “Gazzelloni” trascinata ben oltre il suo punto di rottura. Tutto sembra fatto per convergere verso i sei minuti e mezzo di “Celestial Nile”: l’esplosione di una supernova osservata in differita a centinaia di milioni di anni luce, le profondità oceaniche ingabbiate in un nastro sul punto di disfarsi, l’estatico punto di contatto fra “Jhator” e “New History Warfare Vol. 3: To See More Light”.

Dicevamo: sino ad un paio di mesi fa ancora non esisteva in commercio un disco solista intestato al solo Luca Mai. Oggi, per fortuna, questa lacuna è stata colmata.

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