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R Recensione

8,5/10

Tim Berne

Fulton Street Maul

Fulton Street Maul” vede la luce nel 1987, in un'epoca difficile per la musica jazz: se fino ai primi anni '70 la critica ha cartografato con buona precisione tappe evolutive, generi, filoni, solisti e compositori chiave, da fine decennio diventa tutto più fumoso e di complessa catalogazione, almeno fino al nuovo millennio, illuminato da un risorgimento post-jazz multiforme e in costante fermento.

Aggiungo che collocare Tim Berne rappresenta una sfida a prescindere. L'apprendistato con Julius Hemphill ha lasciato un'eredità importante, ma Berne è lontano dall'essere un epigono dell'avanguardista. La passione per la composizione impedisce di accostarlo con disinvoltura anche a Anthony Braxton, cui pure lo avvicinano non poche analogie che definirei post-strutturaliste, specie in termini di pensiero musicale. La stratificazione a pannelli evoca le suite composite di Mingus, in alcuni frangenti, ma i due musicisti sono separati da tanti anni di esplorazioni e di ammiccamenti al rock e al funk, oltre che dal consolidamento dell'estetica free e post-free (i chicagoani). L'aura a suo modo post-moderna, infine, lo distanzia dal neoclassicismo jazz in voga in quel periodo, tutto proteso verso l'agiografia dell'epopea classica, asseritamente apertasi con lo swing e conclusasi con bebop e figliocci vari, americanocentrica e diffidente nei confronti di tutto ciò che odora di post-free o di Europa/Asia.

L'opera pubblicata nel 1987 è forse la più radicale della sua carriera, sebbene manchino la solennità e il senso di piena compiutezza che rendono le “Fairy Tales” di due anni più tardi il suo capolavoro da consegnare ai posteri. “Fulton Street Maul si arricchisce del contributo di altri due nomi di primo piano: il chitarrista Bill Frisell, a sua volta in rampa di lancio verso la gloria (leggasi alla voce “Before We Were Born”), e il violoncellista Hank Roberts, che gioca un ruolo cardinale in numerosi brani. Il percussionista Alex Cline è a sua volta cruciale nel suo apporto fusion, che combina virtuosismo e sincopi rock.

Vengo al dunque: “Unknown Disaster” prende forma tra le sventagliate di Hank Roberts, furioso e ciclico, e un Bill Frisell in stato di grazia, in orbita Robert Fripp con le sue complesse strutture ritmiche. L'ingresso di Tim Berne palesa la natura proteiforme del musicista: se altri avanguardisti rovistano ancora nel carniere di Coltrane, Shepp e Ayler, Tim Berne scova subito una via più ragionata e frattale, dove coesistono certe geometrie sghembe di Ornette Coleman e il rigore prismico e saturo di sottili frizioni di Wayne Shorter, quando non di Anthony Braxton. La propulsione ritmica strizza l'occhio al funk rock, anche se l'approccio classico di Roberts regala un'aura solenne all'intera performance.

I nove minuti abbondanti di “Icicles Revisited” documentano l'attitudine progressiva di Berne, che si muove con agilità tra i grovigli orchestrali dell'Art Ensemble of Chicago, quindi frammenta la melodia sino a renderla irriconoscibile, alla maniera di Braxton, poi diventa tragico e armolodico come il miglior Coleman; il tutto, mentre Roberts confeziona una sonata purissima screziata di minimalismo. Se l'eterogeneità può far pensare a John Zorn, bisogna considerare che Tim Berne è meno scientifico nel proprio approccio, in qualche modo più romantico. “Federico” è il più sbalorditivo omaggio a Fellini che si possa trovare su disco: se l'intro è piuttosto convenzionale, ancorché raffinatissima nel duetto tra il cello di Roberts e la melodia pura (quasi da standard) del sassofono contralto, dopo un minuto abbondante il brano decolla verso territori più sperimentali e in odore di astrattismo. Bill Frisell scatena la propria energia prog rock (ancora Robert Fripp che annuisce soddisfatto) in un solo che finisce dritto tra i momenti più impressionanti della sua carriera, fino a quando la complessa scrittura asimmetrica di Berne trasforma il brano in un'articolata suite dai toni surreali e capace di cambiare ripetutamente passo. I dodici minuti di Betsy” sono i più accessibili e melodici dell'intero disco, una sorta di post rock ante litteram dominato dall'unisono tra cello e sax e poi da un solo cristallino e toccante di Berne, che progressivamente svanisce nell'ambient.

Tappa obbligata per chiunque ami non solo il musicista di New York, ma più in generale le traiettorie contemporanee del jazz più evoluto.

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